WIRE, Send (Pink Flag, 2003)

Il 2003 è stato segnato da parecchi ritorni sulle scene, autori dati per morti o quasi sono riemersi dall’aura mitica nella quale erano sprofondati e hanno ripreso in mano gli strumenti. E’ stata la volta dei Kraftwerk, usciti da un esilio che perdurava – per lavori sulla lunga distanza – dal lontano 1986, di Robert Wyatt che ha composto nuovo materiale dopo l’ottimo “Shleep” (datato 1997), e dei Wire. Che divergono però dai colleghi per un piccolo particolare: hanno ancora qualcosa di molto interessante da dire.

Il difetto di questi mostri sacri, infatti, è quello di lasciare solitamente insoddisfatti nei ritorni, dettati spesso più da motivi commerciali che da reali esigenze artistiche; e se è vero che questa accusa si può rivolgere più che altro a gente come David Bowie – che bisogno c’era di un album mediocre a così breve distanza da un altro album mediocre come “Heathen”? -, e che sia Wyatt che i Kraftwerk hanno semplicemente sbagliato mira (e questo può capitare anche ai più grandi) , è altrettanto vero che al confronto i Wire appaiono come un gruppo di giovinastri pieni zeppi di idee ed energia. E questo vorrà pur significare qualcosa!

In verità, questo eccellente “Send” deve gran parte della sua bellezza ai due EP “Read & Burn” usciti sempre per l’etichetta della band – intitolata al loro storico esordio del 1977 – dai quali riprendono ben sette brani tra i quali l’ossessiva e frastornante “In the Art of Stopping”, nel quale si respirano umori di Suicide accompagnati da chitarre distorte e improvvise – quanto brevi – stasi o la veemente cavalcata post-punk di “Comet” nel quale la voce monotona e apatica di Colin Newman si eleva a vero e proprio manifesto programmatico.

L’album in generale suona come l’incontro proficuo tra ritmi post-punk spezzati, ossessività elettroniche e romanticismo decadente da new wave; il contrasto tra il cantato di Newman e Gilbert, a tratti – come nella sublime “Mr. Marx’s Table” – carico di pathos e i reiterati battiti industriali è veramente di grande effetto. L’elettronica allo stato puro si fa largo soprattutto nei quasi due minuti di “Half Eaten”, dove è stravolta e accompagnata da una chitarra acida prossima alla saturazione e dove si respira aria da fuga psicogena. Un’atmosfera indefinita, tracciata da un basso mai così corposo e sotterraneo è alla base della malignità musicale di “Being Watched”, travolgenti i tre minuti di “The Agfers of Kodack” scanditi dalla batteria metronomica di Robert Gotobed, dalla chitarra onnivora di Bruce Gilbert e dalla voce filtrata di Newman a cui si aggiunge quella ben più sporca di Graham Lewis.

Con “The Agfers of Kodack” i Wire dimostrano di avere qualcosa che ancora manca alla maggior parte degli artisti della scena più sotterranea del rock: la capacità di scrivere inni. Capacità che si sublima nell’inarrivabile rabbia senza soluzione di “Spent”, urlata fino allo sfinimento su un tappeto sonoro ripetitivo e soffocante. Genialoide la struttura spezzata di “Read and Burn”, in cui la linea rumorista viene estremizzata ma al contempo censurata di continuo da stasi e interruzioni; musica pronta a cambiare pelle in corsa senza perdere un briciolo della sua coerenza. Bagliori dark nella profondità fredda e cupa di “You Can’t Leave Now”, deturpata da stridori industriali. Dopo questa messa in mostra di frenesia e clamore si chiude il tutto con “99.9”, angosciante suite costruita su rumori, saturazioni e feedback, voci cariche di eco, urla, batteria incessante, improvvise aree di calma, furori ancora più improvvisi.

Fratellini dei Sucide – altra band che è tornata recentemente sulla scena, deludendo – e dei Pere Ubu di David Thomas, i Wire dimostrano ai propri “figli musicali” (le Erase Errata, gli El Guapo, gli Oneida) di essere ancora in grado di combattere ad armi pari, anzi, di avere una freschezza che alcuni di loro potrebbero non raggiungere mai.

Signori, i Wire sono tornati, se esiste un dio che benedica i Wire!

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