ROBBIE WILLIAMS, Swing When You’re Winning (Chrysalis Records, 2001)

“Swing when you’re winning” potrebbe avere anche questo sottotitolo: “Chi l’avrebbe mai detto?!”. Certo non noi ed il 99% della stampa specializzata, probabilmente neanche lo stesso Williams.

Fin dai tempi dei Take That, Robbie aveva mostrato un’irrequietezza sconosciuta ai suoi compagni, tanto da lasciarli al top della fama. Dopo aver vissuto un lungo periodo di depressione (aiutata da un rapporto intenso con alcolici e droghe), egli ha cominciato a proporsi con incisive canzoni pop rock, buone per le classifiche, ma non prive di passione e voglia di mettersi alla prova. Certe ballate alla Elton John (non quello bolso degli ultimi vent’anni) hanno sovente centrato le Top 10 mondiali ed interessato la critica, attratta da questo cambiamento artistico. E’ comunque certo che passare dai cinque bamboccioni a Frank Sinatra sia un vero e proprio salto mortale carpiato…

Già, Robbie goes to Hollywood e canta un pugno di canzoni tratte dal repertorio di The Voice e dei suoi giannizzeri (il celebre Rat Pack, completato da Peter Lawford, Sammy Davis jr. e Dean Martin), più altri evergreens interpretati da Louis Armstrong, Ella Fitzgerald, Nina Simone, Bobby Darin, Nat King Cole, ed appartenenti ad alcune tra le più grandi firme del secolo (Brecht/Weill, Duke Ellington, Cole Porter, George e Ira Gershwin, Rodgers/Hart). Che ci fa dunque il ragazzo di Tunstall, Stoke-On-Trent, England, assieme alla storia della musica del Novecento? Ebbene, bisogna ammettere che non sfigura affatto, e che soprattutto la sua voce e le sue interpretazioni sono insospettabilmente all’altezza di un compito così arduo e, direi, colto. In un’operazione del genere è necessaria una buona dose di sfacciataggine, ed a Robbie non manca. La Storia è davanti a lui, ed egli l’affronta con curiosità, passione, umiltà e self-humour. I risultati sono spesso più che buoni, come nelle vibranti esecuzioni di “Mack the knike” (da “The beggar’s opera” di Brecht e Weill) e “Mr.Bojangles”, riuscito tributo alla performance di Sammy Davis jr. La sua impresa è sostenuta dalla potenza della London Session Orchestra e, nelle parti incise nei Capital Studios di LA e negli Electric Lady Studios di NY, da alcuni dei session men del Rat Pack. Decisivi nella riuscita del progetto anche alcuni duetti: quello con Frank Sinatra in “It was a very good year”, ovviamente puramente tecnologico (ma immaginiamo l’emozione di un fan come Williams), lo spiritoso dialogo con Jon Lovitz del Saturday’s Night Live in “Well, did you Evah” (dal film “High society”, 1956), il gioco tra dandies con Dandy King, alias Rupert Everett (“They can’t take that away from me”), la nostalgica “Things” di Bobby Darin (con la voce sensuale di Jane Horrocks) ed infine la canzone del Natale 2001, “Somethin’ stupid”. Originariamente cantata da Sinatra e dalla figlia Nancy nel 1967, essa trova nuova linfa nell’interpretazione di Nicole Kidman, la quale offre la sua voce diafana, incerta, ma terribilmente sexy agli intrecci con il più sicuro Robbie. “Somethin’ stupid” non tradisce il suo titolo, ma ha dalla sua un clamoroso fascino retrò, da vecchia commedia con David Niven o Audrey Hepburn.

Non sembra un’eresia affermare che l’ex Take That riesca ad uscire indenne da tanti confronti così importanti. Ma sono due le cose di cui Williams dovrebbe essere maggiormente orgoglioso: la prima è quella di aver portato alla ribalta delle classifiche il suono delle vecchie Big Bands, sfruttando la sua posizione preminente nell’attuale popstar system. La seconda, più difficile da verificare, sarebbe quella di sapere se anche solo un misero 1% dei suoi fans si stia chiedendo chi sono mai questi Duke Ellington o George Gershwin, avventurandosi perfino a richiederli in un negozio. Falli pedinare Robbie!

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