J.J. CALE, Live (Virgin, 2001)

Finalmente un disco dal vivo per J. J. Cale. Certo, lo schivo e taciturno guitar man non deve essere uno che ha fretta di fare le cose, per cui i 30 anni di attesa per un suo live non devono avere stupito o spazientito alcun suo estimatore. L’album si presenta come una raccolta di songs catturate da varie esibizioni, appartenenti tutte al periodo ’90-’96, e testimonia fedelmente che sorta di piccolo evento raccolto e gioioso debba essere, per il pubblico, ogni suo concerto. Purtroppo in fase di missaggio si è deciso – forse anche per la parziale disomogeneità di suono tra le diverse esibizioni – di separare tutte le tracce con un fade-out/fade-in del volume, interrompendo la continuità del disco. Ma pazienza, J. J. Cale va preso com’è, non è mai stato un tipo troppo accomodante.

La raccolta è nutrita, 14 semplici canzoni che spaziano nel vasto repertorio del chitarrista, tra cui non mancano i tre pezzi che, portati al successo da altri, lo hanno paradossalmente reso noto ad un vasto pubblico: il tormentone di ‘Slowhand’ Clapton “Cocaine”, la suadente “After Midnight”, ancora un successo di Clapton, e la countreggiante “Call Me The Breeze”, un pezzo forte dei Lynyrd Skynyrd. L’apertura è affidata ad “After Midnight”, suonata da J. J. Cale solamente, che canta quasi sussurrando, con la sua tipica voce un po’ nasale e Dylaniana. Segue “Old Man”, in cui a chitarra e voce si aggiunge un timido basso, e da “Call Me The Breeze” interviene tutto il gruppo, che si occupa di fornire un’affidabile accompagnamento al modesto leader.

Nel disco è presente l’intera gamma di generi e sensibilità a cui il signor Cale ha da sempre attinto: sicuramente c’è del country, ma anche molto blues, spruzzate di rock americano anni ’70, un poco di boogie; non mancano i momenti più intimistici (“Magnolia”, “Sensitive Kind”) anche se, rispetto agli album da studio, essi perdono un poco di delicatezza a favore dell’immediatezza tipica della dimensione live. Nel complesso J. J. Cale si riconferma fautore di quella miscela di generi a lui cara, una sorta di ‘country blues’; d’altra parte fin dall’inizio della sua carriera è sempre stato legato a questo genere, e da lui nessuno si aspetterebbe cambi di rotta . Del blues questa musica ha alcuni ingredienti strettamente musicali e qualche modalità espressiva, come ad esempio una specie di pacata trascuratezza necessaria ad esprimere emozioni senza comprometterne la natura delicata; del country c’è un po’ l’impostazione, la tradizione americana bianca, ed alcune idee musicali. Fondamentalmente, comunque, dal disco emerge soprattutto ed ancora una volta, del guitar man, lo stile: quello stile di canto e chitarra un po’ dimesso, mai urlato, fatto di poche note talvolta solo accennate, che ha affascinato molti tra cui Eric Clapton – il quale ha ammesso di aver imparato molto da J. J. Cale – e che fa parte, con evidenza, del bagaglio musicale di Mark Knopfler, che è quasi un suo alter-ego più performante ed incisivo. Infatti la tecnica chitarristica del leader dei Dire Straits, come anche quella vocale, devono moltissimo a questo grande piccolo uomo della sconfinata provincia statunitense.

In definitiva questo “Live” è un buon disco. Per i fans accaniti di J. J. Cale, quasi un documento impedibile. A chi conosce poco l’artista, invece, consiglierei di procurarsi prima di questo altri suoi bei dischi nel complesso più significativi, come “Grasshopper” (tra i più orecchiabili e riusciti, ed è quasi imbarazzante notare la somiglianza con Knopfler in queste tracce), “5” (raffinato, minimale), o l’antico “Naturally”.

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