COUSTEAU, Cousteau (Palm Records, 2000)

Jacques Cousteau, famoso oceanografo francese, dedicò una vita intera allo studio dell’elemento acquatico e dei suoi più o meno conosciuti abitanti. I Cousteau, inglesi a dispetto del nome, sembrano intrattenere l’unico rapporto con l’acqua attraverso una chitarra elettrica dal suono molto liquido, a tratti denso come un fiume in piena, altre volte limpido e riverberato come una goccia di rugiada che cade sulla foglia. H2O a parte, l’album in questione è molto godibile: il vocione profondo, classico e sensuale di Liam McKahey ci guida all’interno di queste undici ballatone autunnali, alcune riuscitissime, altre un po’ meno. Responsabile delle composizioni è il tastierista Davey Ray Moor; evidente è il carattere seminale dei pezzi, di pura impronta pianistica, con atmosfere che sfiorano l’onnipresente Bacharach ed il sempre più citato Scott Walker, fino a toccare certe morbosità ed ampollosità tipicamente alla Marc Almond.
Le prime due canzoni del disco fanno gridare al miracolo: “Your day will come” è lenta, insinuante, malsana ed il vocione di McKahey è un eccezionale biglietto da visita. “The last good day of the year” è perfino meglio della opening track: il flugelhorn (suonato da Moor) che caratterizza l’intro è emozionante ed il pezzo si snoda felpato ed ingenuo, ricordando atmosfere dei dimenticati Pale Fountains di Michael Head. Dopo questi due colpi al cuore, è quasi fatale un certo calo qualitativo, che non impedisce però di assestare a metà album un’altra botta di classe con la meravigliosa ed avvolgente “She don’t hear your prayer”. Se amate certe atmosfere cool jazz confinanti con la musica d’autore (Deacon Blue, Danny Wilson), amerete anche “Cousteau”.

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