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I “nipotini” Soviet Soviet aprono le danze
I Ride tornano in Italia dopo la data estiva dello scorso luglio a Soliera (per Artivive) a presentare l’ultimo album Interplay, che segna il terzo capitolo discografico dalla loro reunion del 2014 – contemporanea a quella dei “gemelli fissascarpe” Slowdive. Aprendo una parentesi è interessante notare un’opinione diffusa tra pubblico e critica, cioè come la stessa band di Reading si sia rimessa in gioco più audacemente del quartetto di Oxford che vanta però, opinione mia, una maggiore qualità compositiva generale come dimostrato soprattutto da Nowhere e Going Blank Again.
In apertura accogliamo con piacere i Soviet Soviet: il trio marchigiano composto da Matteo Tegu alla chitarra, Alessandro Ferri alla batteria ed Andrea Giometti al basso e voce offre un set brillante, in cui spiccano le classiche “Endless Beauty” e “Surf A Palm”, oltre a “Fade Away” da Ghost del 2020 e una manciata di nuovi brani che saranno inclusi in un album di prossima uscita. Grazie ai chords prodotti da Giometti e le tessiture melodiche di Tegu si sprigiona un effetto dirompente, oltre al fatto che il gruppo sembra nato per questi palcoscenici, con la curiosità di quello che potremo sentire nel nuovo disco in studio.

Un gruppo che ama i sixties quanto il rumore
I Ride inaugurano il set con “Monaco”, la voce di Mark Gardener in primo piano, sound vicino a quello dei New Order di fine millennio; “Last Night I Went Somewhere To Dream” è già dal titolo più intima e sognante: un contrasto che spiega già il titolo del report prima dello scossone tellurico di “Dreams Burn Down”, un manifesto dello shoegaze tutto. Andy Bell, che ha da poco sciolto le riserve su una partecipazione al tour degli Oasis, si mostra in formissima alternandosi tra chitarre Epiphone e Rickenbacker dove invece Gardener imbraccia anche il basso per un sostegno a Steve Querault, tipo in “I Came To See The Wreck”, che può riassumere l’attuale dimensione dei Ride, ballabili e elettronici.
Tuttavia della “seconda fase” a distinguersi qualitativamente sono “Future Love” (da This Is Not A Safe Place) e “Lannoy Point” (da Weather Diaries, quanto speravo anche in “Charm Assault” e “Cali”…) per le melodie fantastiche e l’incastro di voci, non sempre pulitissimo durante il set per il troppo riverbero utilizzato. “Peace Sign” è comunque già una live-favourite, accolta dall’entusiamo dell’Alcatraz come “Like A Daydream” del remoto 1990.
Un tuffo nel blues-rock e nei sixties con “Black Nite Crash” e la visionaria “Cool Your Boots”, brani nati in origine per allontanarsi dalle etichette di puri rumoristi e tributare grandi nomi come gli Stooges, The Creation, The Byrds. Fateci caso, gli inni “Vapour Trail” e “Taste”, tolto il riverbero che li contraddistingue, suonano fedeli a quel periodo e d’impronta jangle-pop.

49 Undefeated
Il finale è veramente emozionante, con il drumming di Loz Colbert a guidare “Seagull” e “Leave It All Behind”, in un muro sonico forse contenuto ma efficace. Precisi e impeccabili sono gli aggettivi ideali per descrivere i Ride, il contrario di quanto si può dire dei Brian Jonestown Massacre andati in scena il giorno prima. Due eventi importanti, in ogni caso.
Andy Bell durante i bis veste la maglietta dell’amato Arsenal, da pochi minuti eliminato dalla finale di Champions League per mano del Paris St Germain, e noti in lui una certa tristezza mista a orgoglio, per quello che ancora è capace di fare il suo gruppo nel 2025.
“Chelsea Girl” è il loro singolo d’esordio nell’onda lunga del movimento C86, che stasera chiude la performance. Al netto di quanto potranno dare in futuro, i Ride rimangono una formazione più unica che rara con le sue due anime, spesso litigiose ma necessarie una all’altra, Marc Gardener e Andy Bell, in una continua ma mite lotta a chi scrive la canzone perfetta.


