La Top 7 delle canzoni delle Boygenius

Il progetto comune di tre super-cantautrici come Julien Baker, Phoebe Bridgers, and Lucy Dacus aveva già preso forma nel 2018 con l’EP omonimo, ma oggi esce un album completo che si intitola “The Record”. È l’occasione per fermarci a scegliere le 7 canzoni secondo noi più belle o rappresentative delle tre tratte sia dalle carriere soliste di ciascuna, sia dal super-gruppo a nome Boygenius.

7. JULIEN BAKER, “Hardline” (da “Little Oblivions”, 2021)

“Hardline” è la linea di confine, quel limite che non vorresti travalicare ma che invece, quando hai poca forza di volontà, oltrepassi eccome. “Hardline” è anche il titolo del bel brano che apre l’ultimo album di Julien Baker, “Little Oblivions”, in cui la cantautrice della Matador Records utilizza diversi registri e non solo quello tipico della “cantautrice con la chitarra”. Una canzone dai picchi mastodontici che bene incorniciano la rabbia di avere oltrepassato quella linea “rossa” da non varcare nonostante ci si fosse detti di non farlo, e queste esplosioni donano spessore (e riconoscibilità) a un songwriting personale che evita di accumunare la Baker in quella pletora indistinta delle nuove cantautrici, il che evidentemente non è.

(Paolo Bardelli)


6. LUCY DACUS, “Brando” (da “Home Video”, 2021)

Oltre alla capacità di catturare le immagini e di saperle mitigare attraverso parole e melodie, Lucy Dacus possiede una voce che, nel bagagliaio dei miei ascolti attuali (lontani dai suoni a metà strada tra rock e sintetico), è senz’altro tra le più delicate ma anche tra le più intense.

Il videoclip di Brando è una successione di persone che ballano un secondo ciascuna. Qualcuno ha un gatto in braccio, c’è chi lancia un microfono per terra e chi stringe la mano di qualcun altro. La canzone però, è la fotografia di un ricordo molto preciso e per niente spezzettato, è l’interezza che si esprime attraverso una sincerità senza resistenze, sa di essere pure elegante. E questo compito, ancora una volta, spetta alle chitarre.

(Antonia Salcuni)


5. JULIEN BAKER, “Happy to Be Here” (da “Turn Out the Lights”, 2017)

Questa di Julien Baker è una sorta di confessione, una specie di seduta terapeutica dove le metafore si rincorrono per raccontare il desiderio di cambiare e le difficoltà nel farlo davvero. La dipendenza dalle droghe e la malattia mentale a descrivere una condizione precaria e sofferta, la fede religiosa che vacilla, ma è ancora di salvezza. La voce e la chitarra reggono praticamente da sole un impianto piuttosto essenziale ed è anche per questo che il climax emotivo impressiona in concomitanza con le elucubrazioni religiose, sfiorando con la solita delicatissima scrittura il tema della grazia di dio: forse non è davvero meritata, ma se è davvero più grande di qualsiasi peccato si possa commettere, se dio è cura e perdono per chiunque, perché Julien Baker deve continuare a lottare sola coi suoi demoni?

(Peppe Lippolis)


4. BOYGENIUS, “Bite the Hand” (da “Boygenius EP”, 2018)

È il brano che apriva l’EP omonimo delle Boygenius ormai cinque anni fa: troviamo le tre artiste poco più che ventenni ma già piene di esperienze non certo ordinarie (alcol, droghe, abusi fisici e mentali…), e infatti di relazioni parla “Bite The Hand”.

Il potere e le dinamiche dei rapporti sono i protagonisti di questa canzone dove si racconta di una necessità ‘malata’ che diventa, nel finale, un bisogno di chi era causa del male:

“I can’t love you how you want me to […]

I’ll bite the hand that feeds me

Bite the hand that feeds me […]

Bite the hand that needs me

Musicalmente dalla forte impronta indie-rock, le armonizzazioni e le coralità delle tre cantanti spingono la voce solista della Dacus ad altezze sempre maggiori, completandola. La si potrebbe definire una canzone fatta per chiunque sia mai stato in una relazione che è andata in pezzi.

(Raffaele Concollato)


3. PHOEBE BRIDGERS, “Chinese Satellite” (da “Punisher”, 2020)

Spostarmi per andare ai concerti ‒ l’ho imparato dal tempo sprecato ‒ è l’unico modo per non perderne troppi, è la via che percorro da anni per ripagare i miei debiti di gratidudine alla musica. Esserci, a un live, rimane una scelta. E nonostante mi fossi spostata il giorno prima per un altro paio di band, avevo messo in conto di esserci anche lì.

Ho tutto sotto controllo, ma non faccio nessuno sforzo per farmi convincere da quella faccia tosta. Ai primi brani mi focalizzo sul suo braccio pallido che sa come non mancare di ritmo. Poi parte Chinese Satellite, Phoebe comincia a toccarsi il diaframma, dev’esserci qualcosa che inizia a premere anche sul mio. Al minuto 1:25 si sottrae a noi, al suo corpo, ai musicisti ‒ degni di gran rispetto ‒ che la supportano. Respiro un breve silenzio che sembra lungo come quello che tappa le orecchie prima dei terremoti. La canzone riprende, ma sono rimasta lì.

Al rientro mi rendo conto di quanto una tappa del tour di Punisher mi abbia aperto gli occhi rispetto al tema della disillusione, e di ciò che mi ero persa della piccola rullata di batteria che accompagna quel but that’s impossible.

(Antonia Salcuni)


2. BOYGENIUS, “$20” (da “The Record”, 2023)

L’annuncio della futura pubblicazione dell’LP d’esordio delle Boygenius cinque anni dopo il convincente EP omonimo che aveva dato i natali al supergruppo non ci ha colti di sorpresa: la creatività vulcanica di queste tre ragazze, Phoebe Bridgers, Julien Baker e Lucy Dacus, non si è mai interrotta nel lungo periodo intercorso tra quel lavoro e questo, un lustro nel quale le tre hanno dato alle stampe alcuni dei migliori progetti della loro giovanissima carriera, come il poetico e malinconico Punisher di Bridgers, il massimalista Little Oblivions di Baker e il magmatico Home Video di Dacus. Nell’annunciare il disco, intitolato programmaticamente The Record, le Boygenius hanno anche diffuso tre singoli, “$20”, “Emily I’m Sorry” e “True Blue”, ciascuno scritto da una sola delle tre, manifesto di poetica del supergruppo stesso, in quanto frutto di un delicato equilibrio tra i differenti e variegati stili compositivi delle tre e la liquida organicità del sound che queste sono in grado di creare insieme.

Il singolo forse più convincente, posto che tutti e tre lo sono, è “$20”, senza dubbio il più diretto e il più incisivo, un pop ruvidamente delicato composto da Baker che fonde al meglio le attitudini delle tre ragazze: il brano diventa, quindi, qualcosa di diverso rispetto alla dimensione che avrebbe potuto assumere se si fosse trovato in un disco di Baker. I cori cui provvedono Bridgers e Dacus ampliano lo spazio di esistenza della canzone e del suo testo: le parole quasi danzano in punta di piedi sulle pennate della chitarra elettrica e su un apparato ritmico particolarmente energico e infuocato. Costruito sull’insistente fraseggio tra i graffi chitarristici che rispondono alla voce e le voci stesse delle tre, costruite come un castello di carte elegantissimo che sembra dover crollare a ogni soffio di vento, “$20” cresce a dismisura per intensità e volume in una climax vorticosa che pare non finire mai. «It’s a bad idea and I’m all about it», esordisce Baker volitiva, in medias res. Le idee e le storie si attorcigliano, come il viaggio che l’io lirico intraprende che però non porta a soluzioni o a evoluzioni: è, piuttosto, un andare per andare, un muoversi per scappare via e risvegliarsi altrove. Non vi sono risposte definitive e chiare: le potenziali opzioni si confondono tra loro come si intrecciano le voci sul finale. «Take a break, make your escape / May I please have twenty dollars?», cantano Baker, Bridgers e Dacus mentre l’orizzonte si allontana e il viaggio sembra quasi diventare ciclico, riportandoci al punto di partenza.

(Samuele Conficoni)


1. PHOEBE BRIDGERS, “I Know the End” (da “Punisher”, 2020)

Per più di due minuti, si ha la sensazione che possa succedere poco nella canzone. Un incedere lineare, con riferimenti sparsi tra il Mago di Oz e una relazione che s’increspa, fino alla promessa di inseguire il tornado che incombe e l’apertura di un lungo crescendo di emozioni e intensità che lentamente modifica l’atmosfera: il folk si fa apocalittico, Phoebe Bridgers percepisce la fine, che idealmente è anche quella dello stesso “Punisher”, osservando il mondo accanto sgretolarsi. Alla fine, non rimangono che fiamme ad avvolgere tutto: un urlo e poi una serie di distorsioni rappresentano una deflagrazione e il fuoco che inghiottono tutto, voci comprese, Phoebe Bridgers compresa. E allora scompare tutto. D’altronde, un manifesto l’aveva detto: “the end is near”.

(Peppe Lippolis)