BECK, “Mutations” (DCG, 1998)

#Richiami

Si è sempre parlato delle diverse anime di Beck, ma forse la vera natura di Beck Hansen ha più propriamente ondeggiato, soprattutto nei Nineties, tra l’anima indipendente e quella più popolare. Questo è evidente dall’accordo che Beck era riuscito a fare con la Geffen: in teoria aveva la libertà di pubblicare, parallelamente che con la major, anche con etichette indipendenti. Così la K Records ha potuto pubblicare la sua raccolta di prime registrazioni lo-fi “One Foot In The Grave” e la Flipside “Stereopathetic Soulmanure” lo stesso anno in cui la Geffen ha mandato in stampa il suo debutto ufficiale “Mellow Gold”. “Mutations” doveva avere la stessa fine: subito dopo la fine del tour di “Odelay”, unanimemente considerato un capolavoro della cultura alternativa che mischiava rock, folk, garage, hip-hop con altre idee bizzarre, Beck aveva composto 14 canzoni in 14 giorni, una al giorno, e aveva chiamato Nigel Godrich (già unanimemente conosciuto per il lavoro su “Ok Computer”) per registrare un album che sarebbe dovuto uscire per la Bong Load Records, l’etichetta losangelina che per prima aveva lanciato “Loser”. Ma quando ascoltò “Mutations”, la Geffen si tirò indietro dall’accordo e volle pubblicarlo lei. Si capisce, “Mutations” è riuscito nel (quasi) impossibile compito di superare “Odelay”.

È un album straordinario, pieno di suggestioni, ma che ha un senso intimo generale di blues (inteso non nel senso di genere musicale ma di mood): tutti i commentatori, col senno di poi, l’hanno considerato la prova generale del dolce pessimismo folk di “Sea Change” ma forse “Mutations” ha una consapevolezza in più, quella della bellezza di una vita selvaggia (“In the wilderness / The wild lives are so mild” canta in “Canceled Check”) che però va sempre in rovina, tra una vitalità che emerge a fatica (“The end Of the end / We live again”) e molte immagini funeree (un “funeral fire” chiude “Sing It Again”). C’è il sapore buono di paesaggi folk intinti nell’onirico, c’è la strada e la forza della vita reale: non è più tempo di campionamenti, quindi di rappresentazioni filtrate, qui Beck prende degli strumenti veri come Moog, pianoforti da saloon, chitarre acustiche e il tono diventa da vero narratore di un racconto senza sconti, di storie talmente fragili da essere scritte sulla polvere (“A life of confessions / Written in the dust” è la chiusa di “Lazy Flies”). L’unico episodio un po’ fuori dal mood generale (e che è quasi un anticipo del pazzo divertimento di “Midnite Voltures”) è “Tropicalia”, ma è solo una citazione, un tributo di Beck alla band brasiliana degli Os Mutantes che aveva formato la sua cultura musicale (e che qui influenza anche il titolo del disco).

Non furono realizzati video per l’album e, a parte un’apparizione al Saturday Night Live, Beck fece ben poco per promuoverlo: nonostante questo, la bellezza di “Mutations” fece sì che alla fine l’album divenne disco di platino e vinse il Grammy per il miglior album di musica alternativa (mentre “Odelay” perse come album dell’anno da “Falling Into You” di Celine Dion). Non che i Grammy contino un granché, storicamente hanno sempre privilegiato album molto commerciali, ma l’annotazione è curiosa e dimostra come in “Mutations” Beck continuò a superare steccati e ad unire mondi apparentemente inconciliabili: quello del mainstream con quello indipendente e quello della musica country e blues che fu con la musica rock allora contemporanea. Quest’ultima annotazione è forse la più importante: nel momento in cui i cartelloni dei festival musical si riempivano di rock sempre più pesante e, a voler usare un termine un po’ forte, testosteronico, Beck indicava la strada opposta, quello del ritorno alle origini. Ma poi sappiamo che questo durerà l’arco di un soffio, perché alla fine del 1999 sarà già pronto a mutare direzione verso gli “avvoltoi della mezzanotte”.

85/100

(Paolo Bardelli)