TORO Y MOI, “Mahal” (Dead Oceans, 2022)

A questo punto direi che i tempi sono maturi per riconoscere un po’ di meriti alla carriera di Toro Y Moy/Chaz Bundick (poi diventato Chaz Bear). Una lettura completa di questo nuovo “Mahal” (che, sia chiaro, è un bel disco di suo) non può prescindere da uno sguardo ampio che lo identifichi anche e soprattutto come un’ulteriore tessera di un mosaico pressoché perfetto. Stiamo parlando della discografia di Chaz che è una collezione tanto disomogenea quanto razionale e strutturalmente geometrica. Per farla breve, una delle doti del polistrumentista e produttore è quella di caratterizzare ogni disco al punto da renderlo difficilmente assimilabile agli altri lavori ma garantendo nel complesso un’ impalpabile idea di continuità. C’è il disco synthpop, c’è quello dance, c’è il mixtape hip hop, c’è l’album rock dal vivo registrato nel deserto e così via. Ma non è un puro esercizio di stile, il suo: è l’indole soul funk che cerca e trova declinazioni diverse, molto diverse. E nel contempo c’è il bisogno, ogni volta, di realizzare un album con un’omogeneità quasi rigorosa al suo interno. Se consideriamo poi che le pubblicazioni di Chaz nel loro complesso sono quasi una quindicina in altrettanti anni, ecco che si delinea lo spessore del personaggio. Se prendo una canzone di uno dei suoi dischi ho la consapevolezza che quella traccia non potrebbe stare in nessun altro dei suoi titoli. E questo è in qualche maniera affascinante.

“Mahal” è un viaggio lungo itinerari psichedelici, polverosi, dilatati e soleggiati: profondamente diverso (c’erano dubbi?) dai tre che lo precedono (ci metto anche “Soul Trash”, mixtape del 2019). È un disco dove ritornano le chitarre e l’approccio da band e troviamo un suono che, appunto, devia dal filone elettronico. Ma le chitarre di “Mahal” tracciano altri sentieri anche rispetto a quelle indie-rock di “What For?” e a quelle di certe atmosfere sixties di “Underneath The Pine”.

Siamo più dalle parti della neopsichedelia pop dell’altro capo del mondo, tipo gli Unknown Mortal Orchestra (ospiti in “The Medium”), i Tame Impala e i Pond. Questo vale soprattutto per le prime tracce e le conclusive. Neon Indian e i fratelli jazzisti Mattson 2 (già compagni d’avventura di Toro Y Moi) allargano il ventaglio di nomi coinvolti. Nel mezzo c’è qualche episodio meno ispirato, dove il disincanto leggero rischia di sconfinare vagamente nell’insipido. Capita che invece nelle pubblicazioni di matrice elettronica (tipo “Outer Peace”, 2019) quei momenti meno sostenuti riescano a non perdere tono proprio per i magheggi da produttore esperto. Una cosa a parte in “Mahal”  è la princeiana “Postman”, il momento più ballabile (e remixabile) del disco. Oltre all’intensa “Clarity” (non banale è l’ospitata di Sofie Royer) svettano due tracce che rappresentano la testa (“The Medium”) e la coda (“Days In Love”) dell’album. La prima delle due è introdotta dal finale dell’altra in una circolarità perfetta. Così “Mahal” non si sa dove inizia veramente ma è la conferma di quanto per chi l’ha realizzato siano importanti le architetture, I ponti, le vedute dall’alto.

La prova che Toro y Moi ci ha portati nella sua logica ce l’abbiamo anche quando ci mettiamo ad ascoltare “Anything In Return”(2013), disco per certi versi opposto, per poterci godere ancora meglio il nuovo “Mahal”.

74/100