TEARS FOR FEARS, “The Tipping Point” (Concord, 2022)

“Everybody Loves a Happy Ending” (2004) era un gran titolo per un album di reunion, ma anche per un album definitivo, che chiudesse davvero una carriera. E che carriera!, trattandosi dei Tears For Fears. Il duo Smith/Orzabal ha invece deciso di andare avanti, e dopo 18 anni ha dato alle stampe “The Tipping Point” il cui titolo parrebbe essere, al contrario, non particolarmente benaugurante, trattandosi di “punto di non ritorno”. È così? Ovviamente no, ma certamente “The Tipping Point” non è un album riuscito, questo va detto subito.

Conta inevitabilmente la sua genesi convulsa: è dal 2013 che i due ci lavorano, e da allora sono cambiate molte cose, in primis lo stesso progetto, da album con “feat.” di artisti più giovani, così come va di moda ora, per “aggiornare” il suono dei TFF (idea della casa discografica), a disco tornato pienamente nelle mani e nella direzione artistica dei due. Il che fornisce al presente lavoro un significato ambivalente: nonostante risulti inesorabilmente disomogeneo, si scorge tra i solchi una voglia di rivincita positiva, un voler dimostrare di saper ancora scrivere bei pezzi e di poterli pubblicare nel nuovo millennio senza suonare musicalmente sorpassati.

Quindi: nessun appunto può essere mosso sulla capacità di scrittura dei due, rimasta inalterata nella sua nitida e pura vena beatlesiana in brani come la conclusiva “Stay”, “Master Plan” o “Rivers Of Mercy”, quello stesso stile inconfondibile che fece grande un album come “The Seeds Of Love” (peraltro non tra i miei preferiti), ma si è costretti però ad annotare, e questa è una novità, la presenza di alcuni ritornelli “da denuncia”. Su tutti la vacuità di quello di “Break The Man”, che indispone a tal punto da far skippare immediatamente la canzone (che inizia invece bene, con una strofa in cui si citano espressamente inserti di “Pale Shelter”, circostanza confermata dallo stesso Orzabal a Rock Cellar), ma anche quello di “Please Be Happy” che pare uscito da una colonna sonora disneyiana.

Di conseguenza i punti maggiormente a fuoco, quelli in cui si sente che i TFF ci hanno messo, oltre alla loro innegabile classe ed esperienza, anche un’ispirazione vivida, risultano essere la titletrack, il cui andamento shuffle cita espressamente “Everybody Wants to Rule the World” ma senza indugiare troppo nella didascalia, e l’elettronica di “My Demons”, un po’ pacchiana nell’intro e in alcune scelte stilistiche ma nel complesso quadrata e coinvolgente. Per il resto l’ascolto è piacevole ma finisce per essere ondivago, perso un po’ nella frammentarietà di un album in cui ogni canzone sembra un po’ un mondo a parte, un genere a sé.

Probabilmente, ma questa è la mia impressione e il mio personalissimo parere (di chi peraltro si è visto entrambe le date italiane del 2019, a Milano e a Padova, e non credo che ci siano tanti altri che l’abbiano fatto, a dimostrazione di quanto io comunque ami questa band), a Orzabal e Smith servirebbe registrare il prossimo album senza pensarci troppo su, così, come viene, senza troppe sovrastrutture. Questa mia convinzione deriva dall’averli visti, dal vivo, più “colleghi di lavoro” che membri di una band, guidati maggiormente dal mestiere piuttosto che dal fuoco inestinguibile della musica. Non si può essere rivoluzionari o con la convinzione dei vent’anni, direte voi, alla loro età, ma allora perché continuare a pubblicare ancora dischi? Perché si ha ancora qualcosa da dire, è la risposta semplice. Perciò, appurato che i TFF dimostrano di voler ancora comunicare, dovrebbero solo farlo in maniera meno ragionata, meno filtrata. Il risultato sarebbe probabilmente più convincente che “The Tipping Point”.

63/100

(Paolo Bardelli)

foto della band tratta dalle locandine del tour