PJ HARVEY, “White Chalk” (Island / Universal, 2007)

Chi è incapace di mentire viene scoperto subito, quando prova a non dire la verità. È quello che accade a PJ Harvey almeno quando suona: i dischi belli ma di maniera, come gli ultimi “Stories…” e “Uh huh her”, sfioriscono al confronto con un’opera fragile e dolorosa come “White chalk”.

Questa volta la cantante si avvicina a un pianoforte, sviluppa gli indizi folk disseminati casualmente in precedenza e indossa un vestito bianco, di quelli che le donne hanno nelle fotografie antiche. Ed è proprio l’abito il primo indizio per entrare in un album denso di memorie familiari e di una donna atterrita da quello che le è capitato, che “ha reso insignificante tutto ciò che mi faceva sorridere”, come canta in “The devil”.

Le canzoni di “White chalk” vivono di ombre ambigue, di voci riverberate, di un pianoforte che scava il silenzio di una stanza vuota; in loro c’è un dolore impossibile da dominare, davanti al quale quella voce così sicura di sé sparisce, si fa sottile, fragile, alta e timorosa. Nei dischi migliori di PJ Harvey (e questo, a scando di equivoci, appartiene alla categoria) le parole arrivano con una forza tale da chiedersi se quello che ascoltiamo sia un’autobiografia o meno: in “White chalk” la partecipazione emotiva è talmente intensa da lasciare letteralmente storditi. Non sappiamo più nulla, né possiamo capire: “Before departure” è una lettera d’addio prima di un suicidio o una storia popolare? “The piano” è una metafora di uno strumento che non sente più le mani di una donna su di sé, o un livido quadro di violenza familiare?

E i continui riferimenti alla perdita di un bambino, sono stati vissuti sulla propria pelle oppure no? Ecco quale potrebbe essere la fonte del dolore che permea il disco, prima solo sussurrato – la mano che si appoggia dolente sul pianoforte, la batteria a vibrare come un respiro – in “Dear darkness” (“Cara oscurità, tocca a te pagare a me e all’uomo che amo, con tutte le cose che ci hai rubato”), poi evocato nei flash confusi della bellissima “When under ether” (“Qualcosa dentro di me, non nato né benedetto, sparisce nell’etere, da un mondo all’altro”) e infine sputato fuori da un’anima distrutta nella title-track (“Le scogliere del Dorset si incontrano vicino al mare, dove io facevo camminare il mio figlio mai nato dentro di me, una volgare terra cosparsa di gesso bianco mi graffia i palmi, c’è sangue sulle mie mani”).

Nemmeno il grido altissimo di “The mountain”, degno del Tim Buckley più visionario, può riportare serenità, e ci lascia lì, attoniti per il dolore che abbiamo assorbito, incerti se avere letto un libro o ascoltato lo sfogo più doloroso che una donna possa fare.

(Daniele Paletta)

17 Ott 2007

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