[Richiami] THE DURUTTI COLUMN, “Dry”/”Red Shoes” (Materiali Sonori, 1991-1992)


Ci sono artisti che è impossibile etichettare sotto un genere: sono il genere loro stessi. Ciò che ho pensato vedendo dal vivo Geoff Farina, o il Pop Group, lo intuisco ugualmente quando ascolto The Durutti Column, il progetto nato nel 1978 per volontà del chitarrista mancuniano Vini Reilly.

Una strada percorsa insieme a collaboratori estemporanei – i più fedeli Bruce Mitchell e Andy Connel – nei meandri della Factory Records durante gli anni ottanta, facendo da contraltare con la propria raffinatezza alle sonorità nervose di Joy Division e A Certain Ratio; tappe fondamentali sono l’esordio “The Return Of The Durutti Column” (1980) prodotto da Martin Hannett così come il secondo disco “LC” (acronimo di Lotta Continua) e “Vini Reilly” del 1989, realizzato con Stephen Street su samples di Otis Redding, Annie Lennox, Tracy Chapman.

Pur essendo meno noti al grande pubblico, The Durutti Column rimangono uno dei gruppi cruciali nello sviluppo della scena post-punk britannica con la loro mistura errante e romantica che attinge tanto dalla kosmische music di Manuel Göttsching che dal folk di John Martyn, inventando una nuova concezione di ambient.

I lavori pubblicati dalla Materiali Sonori testimoniano il legame speciale che Reilly ha avuto con l’Italia, fin dall’invito alla prima edizione del Greetings Festival di S.Giovanni Valdarno nel 1985. “Dry” e “Red Shoes” escono in una fase prolifica per l’artista, condensandone le esperienze e i mutamenti e offrendoci versioni alternative delle gemme del suo repertorio. “Dry” si presenta come una raccolta di materiale in studio inciso nel 1991 più frammenti live raccolti al Womad del 1988 e alla Cigalle di Parigi. La title track continua il discorso di “Obey The Time” nell’utilizzo di basi acid-house e synth robotici, inserendo una chitarra psichedelica in echo-plex; “Rope Around My Neck” è una jam tra bluesmen immaginari, mentre le due “Boat People” ci portano dritti in Oriente.

La minimale “Paradise Passage Road” ospita alla voce la newyorkese Miranda Stanton, ex-batterista dei CKM, la prima band di Kim Gordon, e poi attrice in Silence Of The Lambs; “Our Lady (version)” è invece un numero full-band che richiama i The The di Matt Johnson, impreziosito dal pianoforte, viola e armonica. Tra gli highlights della parte concertistica “Finding The Sea” e “Otis” (quante affinità nei fraseggi della chitarra con l’adorato John Squire!), qui interpretate da Sola Liv, laddove “Bordeaux” e “The Beggar” – originariamente su “Another Setting” del 1983 – si vestono di forti tinte cosmopolite. Raramente come in questo caso i brani dei Durutti Column vanno a colmare il vuoto pneumatico esistente tra post-rock malinconico e new age “progressiva”. Il progetto di “Dry” è a cura di Giampiero Bigazzi, copertina e foto di Arlo Bigazzi e Lucia Baldini.

Ristampato per la prima volta in vinile, “Red Shoes” include otto registrazioni del 1992, di cui cinque brani inediti, tra cui l’improvvisazione da polistrumentista su una take di Pete Townshend, la lisergica “For Rebecca” e una “The Crowned Goddess” dal sapore tra medievale e canterbury folk; nuove energie e sollecitazioni ritmiche sorreggono a tratti il malinconico e liquido affresco sonoro, regalando poesia in musica. Vini Reilly ha inciso in piena solitudine il disco, utilizzando la sua chitarra e vari dispositivi elettronici: la straripante ripresa di ‘When The World’ (da “The Guitar And Other Machines” del 1987) anticipa di un paio d’anni la collaborazione tra James e Brian Eno, mentre “For Zinni (III)” suona come un classico da dancefloor in odore di New Order.

Ciliegina sulla torta, in coda a “Red Shoes” troviamo i quattro brani dell’introvabile EP “Greetings Three” del 1986, dedicati da The Durutti Column alla Toscana. “Florence Sunset” si erge a punto più alto delle due compilazioni: un acquerello meraviglioso di chitarre che vola in aria come rondine, cinque minuti che sembrano infiniti. Le percussioni di Bruce Mitchell e il violino di John Metcalfe scandiscono le atmosfere rarefatte di “San Giovanni Dawn”; con “All That Love And Maths Can Do” nasce semplicemente la new age. I due album giusti per conoscere Vini Reilly e la sua arte.

75/100
78/100

(Matteo Maioli)