ALTIN GÜN, “Yol” (Glitterbeat, 2021)

Uno dei dischi più interessanti del 2019, per quel che mi riguarda è quel  compendio di psichedelia pop e folk turcheggiante che risponde al nome di “Gece” degli Altin Gün. Ai tempi del primo album (“On” del 2018) la formula presenta ancora qualche leggerissima forzatura. Nel senso che il progetto nasce e si sviluppa in Olanda, pensato da musicisti del giro di Jacco Gardner con il reclutamento di membri di origine turca (Erdinç Ecevit Yıldız e Merve Daşdemir) e fa una rilettura di pezzi tradizionali. Insomma, inizialmente si viaggia un po’ al confine tra un’ottima intuizione e un esercizio di stile. “Gece” rappresenta la svolta perché gli Altin Gün personalizzano a sufficenza sia il lato psych-pop che la matrice culturale d’origine (gli standard turchi si distanziano dagli originali senza perdere la loro essenza). “Yol”, quello di cui stiamo parlando, in questo senso è un lavoro piuttosto pericoloso perché da dove gli Altin Gün si sono posizionati, sconfinare nel parodistico è un attimo. Per giunta con un effetto sorpresa che per quanto non esaurito, si è di certo ridotto.

E invece il nuovo album viaggia sorprendentemente bene. Spinge ancora di più sulla strada che era stata suggerita da quel cavalcante singolo che era “Süpürgesi Yoncadan”, ovvero lo sposalizio turco tra una luccicante signora disco e un folkeggiante signore piuttosto ruvido. Si arriva alla traccia numero cinque con un senso di soddisfazione che in genere solo gli album veramente corposi sanno regalare. Poi c’è un piccolo, piccolissimo calo che non basta a indebolire l’insieme. Consideriamo anche che nonostante la capacità di rendere assolutamente digeribile il cantato in lingua turca, dopo un certo minutaggio, un filo di fatica può anche arrivare (e non credo di dire un’eresia). Ma “Yol” è appunto fatto di coerenza, tensione emotiva e valorizzazione di un patrimonio inestimabile e che sembra non finire mai.

Certo, vorrei avere gli strumenti culturali per verificare la fedeltà a quella matrice, a quelle tracce originali, a quella strumentazione tradizionale ma posso dire che la fedeltà ad un’identità mediterranea intrisa di contemporaneità c’è tutta. La band di “Yol”  piega il pop adagiandolo sulle sabbie, a due passi dagli ulivi e a uno dal mare. Ma in un senso internazionale, attuale, popolare che travalica il confine tra la musica etnica e le altre cose. E se questo per me è un sommo pregio, per qualcuno più ortodosso può essere il difetto degli Altin Gün. Però, insomma, questo è primariamente pop (“Ordunun Dereleri”), il resto se lo porta dentro, non come un trofeo ma proprio per valorizzare la sua essenza pop. Non so se è chiaro. Forse è più chiaro se immaginate di essere un anglofono che si ritrova immerso ne “La voce del padrone”, per rimanere in un contesto mediterraneo che non dà sfoggio di sé ma è inevitabilmente lì come una cornice insostituibile.

Probabile che poi, tra le band attuali  venga abbastanza facilmente un parallelo con i Khruangbin, proprio nel senso di traiettoria. Nel senso che a un certo punto, agli Altin Gün come ai texani, è servito fare il pieno d’ingredienti diversificati non per sfoggiarli integralmente uno ad uno ma piuttosto per poter arrivare al risultato più semplice e saporito. “Hey Nari” potrebbe essere l’emblema (con “Yüce Dağ Başında”) di cosa sono riusciti a diventare gli Altin Gün scherzando con il prog, le spirali cosmiche e i sintetizzatori.

Una componente della musica del collettivo di Amsterdam, voluta o meno che sia è il tema del viaggio, della strada, dell’altrove in quanto tale, in quanto rifugio. Diventa impossibile non tenere conto di questo, nella fase storica in cui questo lavoro vede la luce. Ed è impossibile non misurare la forza di “Yol” attraverso le assenze che presentifica. Attraverso l’assenza del rito collettivo per cui è pensato e suonato, l’assenza di una macchina noleggiata, l’assenza di un’alba al porto prima di partire o di tornare a casa.

81/100

(Marco Bachini)

 

*Immagine in evidenza dal sito ufficiale.