Don Karate, 7 segreti dietro il progetto di Stefano Tamborrino

Oggi vi presentiamo in maniera inedita Don Karate il progetto “solista-sempre-meno-solista” di Stefano Tamborrino, fiorentino, uno dei batteristi jazz più richiesti e apprezzati che si possano trovare in giro, non solo in Italia. Uno che ha suonato con Stefano Bollani e Ares Tavolazzi, David Binney e Louis Cole, allergico alle etichette e alle limitazioni di qualsiasi genere, e che con Don Karate (per la seconda volta, dopo il primo lavoro ufficiale “I Dance To The Silence”) prende il suo bagaglio tecnico e compositivo accumulato in anni di concerti e collaborazioni in giro per il mondo e lo mischia con l’hip-hop, con le melodie cinematografiche, sovrapponendole a groove spezzati, innestandole con l’elettronica, creando soluzioni sonore completamente nuove, calde, inaspettate, imprevedibili.

La tenda del salotto.
Una volta, quando si era bambini, la tecnica del “se non mi vedi smetto di esistere” sembrava una soluzione sempre a portata di mano per uscire dalle situazioni complesse, mentre ora che sono ad un passo dalla vecchiaia non me lo posso più permettere. Quindi, non avendo tende a portata di mano, approfitto di queste “sette cose” per fare un po’ di ordine tra le idee che hanno generato l’ultimo disco di Don Karate, così magari io in primis capirò chi o cosa mi ha guidato in questo viaggio. Anche perché i brani che compongono il disco sono stati scritti in momenti diversi, in differenti fasi della mia vita.

In questo lavoro ogni tanto ho cercato delle derive pop, i riferimenti andrebbero trovati nei milioni di ascolti involontari a cui tutta l’umanità è quotidianamente sottoposta. Un brano su tutti: “Dilemma” di Nelly, che personalmente non so chi sia o cosa abbia fatto oltre a sto brano, però mentre ero in studio dall’archivio inconscio che purtroppo custodisco nel cervello è uscita questa e mi è rimasta appiccicata addosso. In fin dei conti, siamo un contenitore incosciente di informazioni più o meno inutili, ma che ogni tanto fanno comodo.

Il tema di “YSC” è stato composto su un piano verticale, che per una serie di vicissitudini è stato mio fedele compagno in una parentesi poco brillante della mia esistenza. Ascoltavo molta musica del movimento impressionista, mi sono imbattuto in Ottorino Respighi e mi sono piaciuti moltissimo i suoi lavori per pianoforte, in particolare il “Notturno”.

Vi è un film citato nel disco: si tratta di “Buffalo 66”, opera adorabile firmata dal pugno di Vincent Gallo, in cui l’autore mette su pellicola parte della propria vita. Non dico dove, ma la citazione è esplicita.
Per quanto si possa fuggirne l’intenzione, è interessante come si finisca sempre a parlare di se stessi, e di quello che partoriamo.

Il brano “I Wish” nasce da un paradiddle, una banale diteggiatura per batteria, ovvero una sequenza di note da suonare con la mano destra (R) e sinistra (L): RLRR LRLL. A ciascuno dei tre componenti dei Don Karate sono state attribuite due note. Suonandole secondo l’ordine di qui sopra, si ottiene una nuvola sonora da cui si sviluppa il brano. Questo tipo di “gioco” è una delle basi di partenza della cosiddetta “musica seriale”. Musica di cui, a dirla tutta, non sono mai stato un gran appassionato. Perché ho parlato di questo? Ah sì, perché non mi esce dalla testa “Clapping Music” di Steve Reich.

Tea for D.K. è un brano composto suonando contemporaneamente la linea di basso e la batteria. Il fatto di poter controllare contemporaneamente due strumenti senza dover mettere d’accordo anche due cervelli ha favorito un metro poco consueto, che poi quando ho trascritto le parti ho “semplificato” in un tredici ottavi. L’uso di metri dispari deriva da una certa familiarità con la musica progressive, in particolare con tutta la produzione dei King Crimson a partire dagli anni 70 fino alle più recenti produzioni di inizio 2000. Un disco che all’epoca ho letteralmente consumato fu “The double trio”, ovvero un bootleg pirata rilasciato in Repubblica Ceca dall’etichetta Oxygen.

Sempre in “Tea 4 D.K.” c’è un altro gioco che ricorre, ed è quello dello spelling.
Per questo devo ringraziare un ascolto fondamentale del mio percorso musicale, ovvio “Welcome to Detroit” di J Dilla, perché mi ha aperto a una concezione completamente nuova del ritmo. Qui si fa riferimento al brano “Pause”, da cui l’idea dello spelling è ripresa.

Dulcis in fundo, se dovessi definire il mio disco preferito mi imbatterei in una scelta complessa. Anzi, diciamo pure impossibile. Forse perché ho ascoltato davvero tanta, troppa musica. Però posso dire che “Il vangelo secondo Gesù Cristo” di José Saramago è il mio libro preferito. Questo implica che adoro Saramago, ed evidentemente che ho letto molto meno di quanto ho ascoltato, in questa vita.
Però se c’è una cosa che ha caratterizzato la costruzione di ogni singolo brano dei Don Karate è stata la nebulosità iniziale, la precarietà che poi, ad un certo punto, diventa una struttura stabile. Ecco, di questa architettura considero Saramago un maestro assoluto.