KANYE WEST, “Jesus Is King” (Def Jam Recordings, 2019)

Ok, mi son preso del tempo. Non che ce ne volesse tantissimo per digerire un disco di 27 minuti ma è una questione di peso lordo, visto quel che aveva e che continua ad avere intorno. Ma poi, vai a sapere! Kanye è uno che può patchare metà tracce del disco rendendo obsoleto quel che scrivo anche in questo preciso istante. Certo, il fixing delle canzoni di “The Life Of Pablo” (più l’aggiunta del pezzo conclusivo) non avevano stravolto quel disco e per rivoluzionare “Jesus Is King” e la sua accoglienza ci vorrebbe una cosa dadaista tipo un feat. di Marilyn Manson oppure roba sul confine della bestemmia. Insomma, alludo al fatto che l’elemento più connotante, divisivo e indigesto di questo disco è sembrato (come sapevamo da mo’) questo apparato mistico pretenzioso e abbastanza farneticante.
Ma questo trip della religione usata così (che è un fatto potenzialmente mortifero) può davvero azzoppare il materiale del Kanye West produttore, hitmaker, aggregatore, onnivoro musicale? In fondo, il tizio che ha fatto “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” e “Yeezus” era tutte queste cose qui (compreso l’essere un ammaliatore sputasentenze). Dischi, questi due, che in queste settimane noi tutti mettiamo nelle classifiche dei capisaldi del decennio.
Che cosa non vada in “Jesus Is King” credo che a questo punto sia abbastanza palese. Quello che invece funziona è che riesce a elaborare anche (o forse, “solo”) sul piano musicale il suo concept. È un disco con un vero filo conduttore che gli dà una compattezza rara, ai tempi di Spotify.  Questo è il primo dei miracoli di “Jesus Is King”: un filo che, vorrei ribadire, non sta tanto nei testi risciacquati quanto nel saper declinare e aggiornare con mestiere la parte, diciamo,  più “celebrativa” ed enfatica della tradizione black, soul e gospel. I passaggi “liturgici” propriamente detti sono l’intro, l’outro e quella “Water” che dopo qualche ascolto, non so, sarà suggestione, sembra bella anche concettualmente. Anche i cori “Hallelujah, Hallelujah” di “Selah”, che lo vogliamo o no, fanno salire il pathos di diversi punti. I momenti più forti restano poi il flow di “Follow God”, e le “classiche” intuizioni tipiche di lui (vedi “All Of The Lights”)  di “On God” e “Use This Gospel”.
Quanto alla produzione, ci sono pochi orpelli. E stesso discorso alla voce “ospitate” (degna di nota, certamente quella dei Clipse nella citata “Use This Gospel”).
Ma poi, a ben vedere, anche questo rapporto di West col “divino” in cui si confonde dove finisca lui e dove inizi, appunto, il “divino”, non è che segni una drastica discontinuità rispetto al Kanye con cui abbiamo imparato a trattare. Eppure, “Jesus Is King”, a livello di critica internazionale, pur trovando sostenitori è anche tra i dischi più bullizzati dell’anno. Sì, perché prenderlo a freccette non costa molto. Anzi, dopo il siparietto con Trump questo atteggiamento dà pure un incremento in termini di “punti moralità”. C’è chi come Consequence Of Sound gli dà “zero” e, voglio dire, zero significa la cosa peggiore che uno possa avere la sfortuna di ascoltare anche accidentalmente. Peggio del vostro incubo musicale, qualsiasi esso sia. Non mi dilungo poi su quanto impervio sia il vicolo cieco quando si prova ad argomentare uno “zero” con le categorie del “noioso” e dell’ “ideologico”. Viene il dubbio su chi eventualmente Kanye West stia coglionando di più: se quelli che ostinatamente ci vorrebbero trovare un bel disco o quelli che ci vedono l’inferno.
Dicevamo dei miracoli di “Jesus Is King”. Un altro è che è un disco che scorre. Scorre come l’acqua di fiume anche nel suo assetto da mixtape di (f)lusso. Scorre anche nei suoi manierismi come nelle giunture tra una traccia e l’altra. Scorre come dovrebbe scorrere il rap, così a occhio. Sì, sono complici i famosi 27 esigui minuti ma per venire a noia a volte ne bastano quindici, lo sappiamo.
E poi c’è il miracolo numero uno, quello che sovverte molte certezze fin qui acquisite. Insomma, capita questa cosa per cui si gode quasi di nascosto per un disco formalmente bigotto e tradizionalista che però è il vero guilty pleasure di questi tempi qui.
74/100
(Marco Bachini)