[#tbt] Led Zeppelin II: l’urlo di una generazione, cinquant’anni dopo.

Il 31 ottobre di cinquant’anni fa il secondo album dei Led Zeppelin usciva nel Regno Unito, una decina di giorni dopo la pubblicazione negli States. Era il 1969, l’anno zero della musica contemporanea, quello di “Abbey Road” dei Beatles, della folla oceanica di Woodstock incantanta di fronte alle esibizioni incendiarie di Carlos Santana e Jimi Hendrix, di “In A Silent Way” di Miles Davis. In quell’anno saranno più di un milione le persone che metteranno sul piatto del giradischi “II”, trovandosi al cospetto di una pietra miliare dell’hard-rock.
Concepito in condizioni di grande pressione e durante i momenti di pausa del tour mondiale del 1969, “II” si alimenta del furore mistico scatenato dalla band durante i concerti e, rispetto al suo precedessore “I”, presenta alcuni tratti di notevole innovazione in termini di decostruzione della struttura blues in favore di derive sperimentali di stampo psichedelico/hard-rock. È soprattutto questo che dei Led Zeppelin resterà nella Storia: una capacità profonda di lettura del contemporaneo con lo sguardo sempre rivolto al futuro.

Led Zeppelin è innanzitutto un quartetto di virtuosi del rock & blues che in “II” raggiungono l’apice tecnico e una profonda empatia nei confronti del loro pubblico: dai geniali riff di chitarra di Jimmy Page (indimenticabile l’assolo centrale di “Heartbreaker”) alle vociferazioni ai limiti dell’umano di Robert Plant, l’anima selvaggia dei Led ma anche autore dal talento sopraffino, capace di firmare in questo disco una ballata d’amore da brividi come “Thank You”: 170 secondi di caos calmo generato da chitarre acustiche, dall’organo e da un testo in cui gli elementi della Natura si cristallizzano intorno alla figura amata (la moglie di Plant, Maureen Wilson). E poi ancora i vertiginosi giri di basso di John Paul Johnes (“Lemon Song” in particolare) e le percussioni tempestose di John Bonham che consegna alla Storia l’incredibile assolo di batteria di “Moby Dick”.

Ma la sintesi perfetta del disco rimane l’iniziale “Whole Lotta Love”: una mezza risata e un riff di chitarra di tre note danno l’avvio ad uno degli inni storici della musica contemporanea, una sonata blues che si evolve in un parossismo hard-rock di rumorismi, percussioni tribali e urla viscerali che simulano orgasmi. Si tratta di un manifesto dell’amore libero destinato a rimanere per sempre nella memoria collettiva: “Woman, you need, yeah, Love”, grida Robert Plant sul finale, ed è l’urlo di un’intera generazione.