BBV No. 29: RIDE, “This Is Not A Safe Place” (Wichita/PIAS, 2019)

Come è accaduto per altri come-back in questi ultimi anni, la grande attesa per il primo disco de Ride, in questo caso “Weather Diaries” (Wichita/PIAS, 2017), si è poi bruciata in una delusione che giustificata o meno, fa tanto pensare a “Il sabato del villaggio” e dove l’attesa stessa del “Dimani, al dì di festa” è essa stessa l’evento che entusiasma e richiama le attenzioni. Così che, se verrebbe voglia di dire che questo è un segno dei tempi, bisogna in fondo riconoscere che la natura umana, pure rinnovata da questa rivoluzione ennesima tecnologica, ha dei tratti che sono innati e che si prestano poi alle stesse innovazioni che noi stessi creiamo per facilitarci la vita.

A dirla tutta, in fondo non era un cattivo album. Be’, neppure un capolavoro, ma la grande attesa, in un momento in cui peraltro ritornavano tutti e quattro i big four delo shoegaze (MBV, Slowdive, Jesus & Mary Chain e appunto i Ride), veniva in fondo appagata da un disco che riprendeva il sound classico del gruppo, seppure in parte levigato da ogni “dissonanza” e alterazione di suono tipica e senza la grande epica dei momenti gloriosi dell’inizio degli anni novanta.

“This Is Not a Safe Place” (Wichita/PIAS), il secondo album dalla reunion del 2014 sembra invece non poter fare molto “rumore” (in tutti i sensi possibili). Andy Bell ha detto che il ritorno al sound delle origini sarebbe stato molto più marcato, così come aveva voluto richiamare una attitudine prossima al sound post-punk dei Fall e a quello dei Sonic Youth, almeno le intenzioni stavano qui, ma in verità di questi riferimenti qui non si coglie alcuna traccia, l’album non convince e il giudizio finale galleggia oggettivamente al di sotto della sufficienza.

Prodotto da Erol Alkan e mixato da Alan Moulder (con Caesar Edmunds), praticamente la stessa squadra al lavoro su “Weather Diaries”, l’album conta pochi momenti positivi e che sono quelli che ci richiamano al sound storico della band: la strumentale “R.I.D.E.”, il sound britannico anni novanta di “Future Love” e “Kill Switch” oppure “Jump Jet” e la accattivante “Repetition”, nettamente il pezzo migliore del disco, con un uso corretto di tutta la effettistica e un risultato che ricorda molto “Centaur” de gli Orgone Box. Tutto il resto però non funziona. Pezzi come “Clouds Of Saint Marie” e “Fifteen Minutes” sono banali, ridondanti, oppure inconsistenti come nel caso di “Eternal Recurrence” e persino nella traccia che avrebbe dovuto essere il pezzo forte dell’album, cioè gli otto minuti di “In This Room”. Le ballads come “Dial Up” oppure “Shadows Behind The Sun” sono oggettivamente brutte, trasmettono una stanchezza che è quasi contagiosa e da evitare a tutti i costi e danno la sensazione finale che qui ritrovare la verve di una volta sarà veramente difficile.

59/100

Emiliano D’Aniello