[Cannes chiama Kalporz] Diario 15 maggio 2019

Dodici mesi sono passati ed ecco che la grande macchina del Festival di Cannes si è messa di nuovo in modo. Ripulito il Palais, sistemate le varie sale, attivato il marché, chiusa al traffico una parte della Croisette e via discorrendo. Il popolo degli accreditati, transumante per indole e necessità, è approdato sulla Costa Azzurra con ogni mezzo – noi via treno, qualora ci fossero dei curiosi a riguardo – e si prepara a due settimane di film, star vere e presunte. E tanta tanta pioggia, a fidarsi delle previsioni meteorologiche. Ah, le meraviglie del cambiamento climatico, che sta eliminando le mezze stagioni per regalarne una sola, un infinito eterno imperituro autunno (altro che inverno del nostro scontento…).

Non è forse un caso che il primo film presentato al Festival, l’apertura in concorso The Dead don’t Die di Jim Jarmusch, parta proprio dalle mutazioni del clima per narrare la sua storia di zombie. L’entusiasmo preventivo per il film lo si era percepito fin dalla diffusione del cast ufficiale, che vedeva in scena un numero spropositato di attori prossimi al culto, da Bill Murray a Chloë Sevigny, da Steve Buscemi ad Adam Driver, da Selena Gomez a Tilda Swinton. Con l’aggiunta di alcuni musicisti fedelissimi del regista di Akron come Tom Waits e Iggy Pop. Si capisce fin dalle primissime battute che l’intento di Jarmusch sia quello di prendersi una vacanza e divertirsi, canzonando tanto l’orrore cinematografico quanto quello reale – i riferimenti alla presidenza Trump sono distillati per lo spettatore lungo l’intero arco narrativo – ma l’effetto comico svanisce ben presto e il film inizia a girare a vuoto.

Battuto sul campo della parodia del genere da altri esempi più brillanti visti nel corso degli ultimi decenni – Braindead di Peter Jackson e The Shaun of the Dead di Edgar Wright, per esempio – The Dead don’t Die si smarrisce anche sul campo della metafora politica. Possibile che Jarmusch non sia stato in grado di articolare un ragionamento più complesso e stratificato di quello relativo al popolo già ora non-morto perché assuefatto alle regole del possesso materiale e del capitalismo? George Romero aveva portato a termine riflessioni ben più profonde e politicamente battagliere nella medesima direzione quarant’anni fa.

Alla resa dei conti The Dead don’t Die appare come il lavoro più opaco di Jarmusch, divertimento un po’ episodico e soprattutto sterile. Un film decapitato, a suo modo, come gli zombie che mette in scena. E agli zombie assomigliano tragicamente anche al mondo degli accreditati, sempre uguale a se stesso, sempre a ripetere il medesimo schema. E tra due settimane altrettanto malridotti fisicamente.

Buon festival, e che la fiera inizi!

(Raffaele Meale)