VIRGINIANA MILLER, “The Unreal Mccoy” (Santeria/Audioglobe, 2019)

Togliamo di mezzo prima la valutazione musicale: “The Unreal Mccoy” è un bell’album. Musicalmente. Nulla di dire, i Virginiana Miller non ci hanno fatto attendere invano, in questo senso. Le canzoni possiedono quelle melodie agrodolci che ci fanno amare la band livornese e quegli slanci positivi che cementificano il nostro rapporto con loro. Sono pezzi ispirati, scelti, voluti.
Ma lo snodo fondamentale di “The Unreal Mccoy” è, ovviamente, un altro. I testi in inglese, manco a dirlo. Non è un elemento che può essere rubricato al semplice “volevamo cambiare”. Nella presentazione dell’album ci hanno dato due motivazioni: una è che quando avevano iniziato in pochi cantavano in italiano, mentre poi più di qualcuno è salito sulla barca e ora è giunto il tempo di prendere il vento opposto. L’altra è che non avevano più nulla da dirci nella nostra lingua natìa.

Bene: la prima considerazione è più che legittima, e denota una voglia di rimettersi in gioco propria dei migliori uomini. Il non sedersi sugli allori, il ricominciare daccapo, l’essere in cammino. Benissimo. Bisogna però vedere i risultati se sono confortanti, e su questo torneremo. Il secondo punto invece preoccupa, e molto: cosa vuol dire che Lenzi non aveva nulla da raccontarci? Ci pare strano, visto che l’ultima sua opera letteraria, “In esilio”, è dell’anno scorso. Lo ha prosciugato? Che poi i testi ci sono, seppure in inglese, dunque non è vero che non c’erano argomenti. Mica hanno fatto un album strumentale. I temi ci sono, e infatti c’è l’America vista dall’Italia, un’America giudicata in cartolina senza muoversi da casa, ma odorando, leggendo, guardando, insomma un racconto che non è preso sul campo ma che potrebbe anche svelarci qualcosa di sorprendente, vista la prospettiva privilegiata del distacco e lontananza che rende più oggettivi.
Per questo davvero la svolta inglese non la si comprende appieno, o almeno non subito. Verrebbe da dire che sono i Virginiana de “Il primo lunedì del mondo” e “Venga il regno” che cantano in inglese, non qualcosa di diverso, qualcosa di più.

E qui si inserisce la valutazione artistica sul cambiamento: siccome i Virginiana avevano dei testi così belli, pesanti e profondi in italiano, naturale che l’inglese diminuisca la loro forza espressiva. Non poteva essere altrimenti. L’unica chiave di lettura possibile è più politica (confortata da qualche intervista, come ad esempio questa su IndieForBunnies): una sofisticata renitenza alla leva sovranista, ma forse non ce n’era bisogno nel momento in cui i Virginiana erano così bravi a raccontare le storie delle persone. Le vite delle persone vanno molto oltre la politica, si sa, sono quello che val la pena raccontare (in questo lo so non sono tutti d’accordo con me, ma a mio sommesso parere la musica è arte e bellezza e non impegno politico). Come se i Virginiana in sostanza avessero praticato una sorta di disimpegno politico per dare un messaggio politico. Un disinteressarsi della questione per accendere un faro.

Quindi non era vero che non avevano nulla da dirci: volevano farci lambiccare con tutte queste sbrodolate mentre loro volevano forse solo cambiare, fare quello che poteva dare nuovi stimoli, reagire in modo loro all’attuale evoluzione del rock in chiave estetica-pop, sentirsi di nuovo vivi e godere di una nuova giovinezza. Del resto sono i giovani che fanno quello che vogliono, e come i giovani i Virginiana che “di musica non ci hanno mai campato” (loro parole) se lo possono permettere.

Per cui in definitiva forse una chiave di lettura è quella di non curarsi dei precedenti Virginiana, azzerare tutto, e godere solo (come spesso si fa con i prodotti americani o inglesi) della spensieratezza di canzoni come “Old Baller” (che al sottoscritto ha ricordato un po’ l’apertura di “Devil Was In My Yard” dei Sleepy Jackson) e “Toast the Asteroid”, della delicatezza stile Sigur Ròs trasferiti in Texas di “Soldiers on Leave”, dello spirito noir di “Christmas 1933”, del country tra Livorno e il New Mexico di “Motorhomes Of America” e “Albuquerque”.

Non avevamo capito nulla: l’unico modo per comprendere i Virginiana Miller oggi era dimenticarsi che sono i Virginiana Miller.

70/100

(Paolo Bardelli)