SUEDE, “The Blue Hour” (Warner, 2018)

Non c’è autenticità nella musica se la miccia compositiva non nasce dalle esperienze, e il momento d’oro dei Suede va inquadrato proprio in un riappropriarsi di un rapporto sano e virtuoso tra arte e vita, nella prospettiva del vissuto che ridona linfa all’ispirazione. E questo vale soprattutto per Brett Anderson.

Tutto nasce dalle paure di Brett che – ha dichiarato – diventando padre si è trovato a fare i conti con le proprie inquietudini di bimbo, di ragazzo, di figlio. Processo di rielaborazione iniziato con “Night Thoughts” (2016, album più che discreto con grandi picchi come “No Tomorrow” ma nel complesso un po’ altalenante), che diviene quasi concept album in questo “The Blue Hour” che è un disco gotico, orchestrale, tagliente, profondo.

“L’ora blu” è tecnicamente quel particolare momento in cui il sole è sotto l’orizzonte, e quindi è un attimo di luce riflessa, dove le verità possono manifestarsi con brutalità perché la troppa luce alle volte abbaglia e non lascia comprendere bene. Un tempo in cui si vede meglio con il cuore che con gli occhi. Quello che è da indagare è piuttosto se i Suede intendano riferirsi al crepuscolo serale o a quello mattutino, e cioè ad una fase di inizio o di conclusione. In alcuni punti lo sguardo è di chi ha già qualche pelo bianco nella barba e parla al figlio nel momento in cui non ci sarà più (lo afferma lo stesso Brett al West Australian), come in “Life Is Golden” (“The same blood runs through your veins / The same strange way of talking / The same thoughts sink through your pillow / The same crooked smile / You’re not alone; look up to the sky and be calm / You’re not alone look into the light and be heard / You’re never alone; your life is golden) ma lo fa per rincuorarlo e il mood è positivo. E’ come se Anderson avesse voluto affrontare le proprie paure di abbandono (sua madre morì quando lui aveva 22 anni) per superarle. Anche le tempistiche propendono per un’autoanalisi del genere: Brett Anderson ha pubblicato la sua autobiografia “Coal Black Mornings” il 27 febbraio 2018 contemporaneamente al termine delle registrazioni londinesi di “The Blue Hour”, e ciò significa che ha portato avanti i due progetti in parallelo, da considerarsi quindi inevitabilmente interconnessi. Prendiamo il racconto della perdita della mamma (il testo completo è pubblicato dal Guardian a questo link): Brett afferma che scriverlo “è stato il momento più emozionante per me. Ero seduto nella mia stanza con il mio portatile e le lacrime mi rigavano il viso: tutte quelle emozioni erano uscite di nuovo dopo quasi 30 anni” (dichiarazione all’Independent). Normale che queste emozioni siano finite nel disco che Anderson stava incidendo.

Le canzoni di “The Blue Hour” sono dure, non fanno sconti, ma hanno sempre una chiusa positiva (“When it all is much too much? / We’ll run to the wastelands / Where the snow is all there is / And words sound different / When it all is much too much? / Meet me in the wastelands / Where the fear will fade away / Where the children in us play”). Le chitarre di Richard Oakes si elevano potenti e lancinanti (il finale di “Flytipping”), gli arpeggi virano sempre al minore – in tipico suede-style – con un’epicità da lacrima (il ritornello di “Beyond the Outskirts”), i riff seguono le cavalcate gotiche orchestrali (ha suonato la Praga Philharmonic Orchestra). E anche quest’ultimo aspetto è da sottolineare: il padre di Anderson, un tassista, era ossessionato da Franz Liszt e dalla musica classica. E Brett doveva evidentemente sfidare anche quell’eredità.

Come a dire che i cromosomi non sono acqua, e prima o poi tutti noi dobbiamo affrontarli. L’augurio, ovviamente, è di farlo in una maniera così vitale come ha fatto Brett.

73/100

(Paolo Bardelli)