LALA LALA, “The Lamb” (Hardly Art, 2018)

Esasperazioni e agitazioni, rimpianti e rimorsi, paturnie e patimenti: se ragionassimo a mente fredda potremmo ammettere senza remore che dentro a “The Lamb” – il secondo disco di Lille ‘Lala Lala’ West – si finisce per trovare esattamente tutto ciò che ci si aspetta da un album indie-rock firmato da una ragazzina poco più che ventiquattrenne. Lo ammettiamo subito quindi: il secondo album di questa ragazza dallo sguardo truce originaria di Chicago non è certo qualcosa che vi farà strabuzzare gli occhi dalla sorpresa. Ma se anagraficamente non siete troppo in là, o se malgrado l’età non faticate a ricordare cosa significhi, per chi ha vent’anni, quel suono tutto chitarre-lacrime-sudore, allora “The Lamb” potrebbe essere per voi una delle scoperte musicali più fresche dell’anno.

Scritto, registrato e prodotto dopo un periodo piuttosto complicato che la stessa autrice descrive parecchio denso di paranoie e traumi più o meno gravi, “The Lamb” è il secondo album di Lille West, e arriva a due anni di distanza dall’esordio “Sleepyhead”. Come successe in quel primo lavoro e come succede anche qui in maniera più cosciente e anzi affinata, è un suono puramente indie-rock – con venature grunge e lo-fi – a fare da impalcatura alle canzoni, che creano un racconto più o meno elusivo dei piccoli enormi disastri esistenziali capitati all’autrice. Ovviamente in questo tipo di narrazione non possono mancare i rapporti sentimentali finiti male, e infatti li troviamo subito, ad inizio del disco, nell’opening track “Destroyer”, in cui il falsetto cantilenante del ritornello non concede gentilezze («You are the reason my heart broke behind my back»). Ma prima che possiate immaginare “The Lamb” come una specie di diario segreto scritto da un’adolescente a cui piace fare quella triste sappiate che dentro ai suoi trenta minuti abbondanti c’è molto sangue che cola: amici e persone care scomparse, dipendenze da alcol, rimorsi difficili da mandare giù.

Ci pensa “I Get Cut” a dimostrare che sotto questi dodici pezzi c’è un cuore che pulsa tenace: i muri di chitarre noise si alternano ad una specie di racconto accelerato degli eventi accaduti alla West negli ultimi due anni, eventi dai cui strascichi psicologici mostra di essere ormai allontana, non senza fatica e non solo per merito suo – «I get cut with every touch, You come by and soak it up» canta nel finale, con una fierezza sguaiata e genuina. Senza dubbio uno dei brani che fanno da architrave all’intero disco. A seguirlo è “Dove”, una traccia che strizza il cuore, in cui il racconto della scomparsa di una persona cara è addolcito e levigato da chitarre più eteree e da un finale strumentale di synth che sembrano riverberare all’interno di una caverna. Il tema della morte ritorna anche in “When You Die”, ma qui più che l’empatia a colpire è l’energia disincantata con cui Lillie prova ad immaginare un flusso di eventi diversi da quelli realmente accaduti, come a fantasticare su cosa sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente, in un’alternanza di rimpianti e rimorsi tanto futile quanto autentica. Ed è ascoltando pezzi come questo che si comprende la vera natura del disco: nel suo secondo album Lala Lala prova a fare i conti con gli errori e i traumi del passato, fagocitandoli dentro le sue liriche sospese a metà dell’astrazione e del realismo, quasi come ad esorcizzarli e a celebrare un’insperata serenità raggiunta con fatica e con determinazione. Ma prima che il disco si chiuda con l’ultima morbidissima ballad al sapore caldo di sax – “See You At Home” – c’è spazio per dare più di un ascolto a “Dropout”, forse la traccia-chiave dal punto di vista prettamente narrativo: un brano in cui l’autrice costruisce pattern di ariose chitare dream-pop per sorridere dei piccoli segreti che confessa tiene per sé, un modo del tutto personale per custodire al sicuro le piccole dosi di felicità che vale la pena conservare («I love my secrets, I’m lucky in making»).

Per quanto il passato possa essere stato buio e inospitale per questa ragazza ventiquattrenne di Chicago, il futuro sembra essere un posto senz’altro molto più accogliente e luminoso.

78/100

(Enrico Stradi)