PAUL McCARTNEY, “Egypt Station” (Capitol Records, 2018)

Quando hai fatto abbastanza musica per assicurarti che il tuo nome definisca l’era del rock’n’roll e venga menzionato al pari di Mozart e Beethoven dalla gente che vivrà nell’anno 2222, hai tre opzioni da scegliere per finire in bellezza la tua carriera:  potresti rinunciare a rivivere le vecchie glorie come promemoria dei tuoi maestosi successi; puoi inseguire lo zeitgeist, lavorando con il più giovane e in voga talento del momento per riconquistare il tuo posto nell’olimpo della musica oppure, puoi lentamente scivolare nel tard rock, e passare le tue giornate a suonare nella casa di riposo “Old blue devils” di New Orleans. Nel suo diciassettesimo album da solista Egypt Station, Sir Paul McCartney percorre tutte e tre le strade, ma pare che il principale autore vivente della musica popolare occidentale, abbia ancora la sensazione di dover dimostrare qualcosa a se stesso, confezionando un album un po’ controverso, una sorta di tour de force musicale che ripercorre in un certo senso la sua intera carriera, strizzando però l’occhiolino al mondo “moderno”. Ad esempio in Who Cares, baldanzoso rock’n’roll, affronta il tema del bullismo in modo dolcemente ingenuo: “A chi importa cosa dicono gli idioti, a chi importa cosa fanno gli idioti, a chi importa del dolore nel tuo cuore, a chi importa?”, l’anima dell’ex beatle grida e si dibatte per tornare dal passato, non a caso l’apertura flower power del brano People Want Peace: “Signore e signori, sono di fronte a voi con qualcosa di importante da dire” ricorda vagamente Lonely Hearts Club Band di Sgt. Pepper, come non è accidentale il pop barocco Do It Now che evoca gli accordi di In My Life. Tutto di questo disco riporta a strade già percorse di un tempo lontano appartenente ad un universo parallelo.

Alcune delle 16 tracce cercano, aimè senza successo, di inserirsi nel pop moderno. Back In Brazil è una bossa nova un po’ ‘sintetica’ e non proprio ben riuscita che descrive l’amore del baronetto per le altre culture. Caesar Rock è un collage in loop di Tomorrow Never Knows con tratti rock alla The Who per intenderci misto ad un R’n B contemporaneo, una piccola delusione, che serve solo ad illustrare che sebbene McCartney utilizzi una parvenza di elettronica, probabilmente avrebbe dovuto, in questo caso, lasciare spazio agli specialisti del genere. Ma veniamo a Fuh You unico brano dell’album che vede la produzione di Ryan Tedder degli One Republic, è il nadir dell’album, la materia che incontra l’anti-materia. Qui disperato erotico stomp di McCartney risulta forzato e anche un po’ imbarazzante, Fuh You è un miscuglio massimalista di assurdità moderniste, in cui il cantante forza un po’ le cose con allusioni sexy, abbellite da piccole incursioni di clavicembalo. La mano di Tedder si fa sentire stendendo la produzione su una griglia di computer soffocante, uccidendo così ogni parvenza di spontaneità con una densa strumentazione ipossica, che fa tanto Coldplay.

In un certo senso, Egypt Station si presenta come un concept album, tenuto insieme dall’idea che queste canzoni sono stazioni del viaggio personale di Macca. Caratterizzato principalmente da pezzi revival, il disco si avvia verso il finale facendo una piccola deviazione su Hunt You Down / Naked / CLink, un medley composto in tre parti che dura sei minuti, agganciandosi l’orecchio dell’ascoltatore per la sua originalità. Qui McCartney si riscopre a sperimentare, seppur con la sua frenesia di comprimere idee diverse in un unico pezzo (tira un trucco simile su Despite Repeated Warnings), bisogna ammettere che il risultato che ottiene è davvero interessante. Ogni tanto la sua voce scricchiola qua e là e ha qualche problema nel sostenere le note, ma il suo songwriting mostra a malapena i suoi anni.

È ancora uno dei più grandi musicisti al mondo nel collegare i punti tra versi e cori, e possiamo affermare che alcune delle canzoni inserite in questo progetto sono tra le più forti, melodicamente parlando, degli ultimi anni. Questo dimostra che a 76 anni, Sir Paul, socialmente e musicalmente, ha ancora qualcosa da dire e non ha nessuna intenzione di mollare e, anche se questo significa inciampare occasionalmente lungo la strada, come lui stesso canta in People Want Peace: “Non me ne vado mentre le persone piangono di più”.

71/100

(Simona D’Angelo)