La Top 7 delle canzoni dei Low

Esce oggi il nuovo disco dei Low, una band che da queste parti non smette mai di scaldare il cuore. Per celebrare il nuovo “Double Negative” (Sub Pop Records) abbiamo deciso di dare uno sguardo a quello che la band del Minnesota ha saputo regalarci finora: perciò ecco la nostra Top 7 dei nostri sette brani preferiti dei Low. Con un ospite speciale, ovvero Daniele Carretti (Felpa, ODP).
Questa volta l’ordine non è propriamente di bellezza o importanza, ma è un ordine di ascolto. Partiamo?

1. “Violence”, da “Long Division” (Vernon Yard Recordings, 1995)

Con il loro secondo album i low sembrano voler andare oltre lo slow-core del primo con un’apertura ancora più rarefatta ed eterea, come se i Codeine suanassero Victorialand dei Cocteau Twins o viceversa. Riverberi lunghissimi e uno dei suoni di chitarra più belli che abbia mai sentito registrati su disco. Strumenti che si muovono circolarmente e una melodia incredibile su un testo che non lascia scampo, “No, you can’t trust Violence”, come l’inverno più rigido nel loro Minnesota.

(Daniele Carretti – Felpa, ODP)

2. “I Hear…Goodnight”, da “In The Fishtank 7” (Konkurrent, 2001)

Tra il 1996 e il 2009 l’etichetta/distributore belga Konkurrent diede vita a “In The Fishtank”, un format per cui una o più band avevano due giorni di tempo da passare in studio per registrare un disco (per i più curiosi, l’elenco delle uscite è qui). Il settimo episodio di quel giochino fu impersonato dai Low e dai Dirty Three, e ci pareva giusto ricordarlo in questa occasione. Più che un disco di canzoni, “In The Fishtank 7” è un disco di composizioni dai contorni appena abbozzati, in cui due band scoprono di poter coesistere nello stesso spazio in maniera armonica e anzi, quasi complementare. La prima traccia “I…Hear Goodnight” è il preludio a tutto quello che si sente nel resto degli altri sei brani: la delicatezza compositiva dei Low viene esaltata dal violino straziante di Warren Ellis, per un vortice di calore inedito e sorprendente. Sarebbe stato un peccato dimenticarsene.

(Enrico Stradi)

3. “Try To Sleep”, da “C’mon” (Sub Pop Records, 2011)

La semplicità come way of life. “Try To Sleep” è una ninna-nanna perfetta, un dolce coccolare un bimbo in fasce, la consapevolezza dei cicli del giorno (e della vita). Che è bello immergersi nei sogni, una volta che si è riusciti ad addormentarsi, ma bisogna svegliarsi. E’ la necessità di far convivere gli opposti, il sonno e la veglia. Il sonno per essere vigili. Il restare svegli per godersi il sonno.
Ma la consapevolezza maggiore che traspare da questa canzone è quella musicale dei Low, giunti ad un livello invidiabile di padronanza del proprio suono.
(Paolo Bardelli)

4. “Down”, da “I Could Live In Hope” (Vernon Yard Recordings, 1994)

Negli stessi giorni di inizio autunno oggi contrassegnati dall’uscita di “Double Negative”, venticinque anni fa i Low si accingevano a registrare l’LP d’esordio “I Could Live In Hope”, con la produzione di Mark Kramer: undici brani destinati a lasciare un segno indelebile sul pubblico del rock, tanto meravigliosi nel trascendere l’apparente semplicità della formula chitarra/basso/batteria quanto unici nel creare un luogo senza tempo fatto di poesia, sogno e desolazione. In mezzo a classici quali “Words”, “Lazy” e “Slide” io ho sempre avuto un debole per “Down”, laddove un filo sottile lega il tormento dell’anima ad una melodia salvifica per il cuore. La voce carica di pathos di Alan Sparhawk mi ricorda da vicino quella di Michael Stipe in “Camera”, mentre la sua sei corde piange blues e rumorismi su di un tappeto ritmico circolare fornito da Mimi Parker e dal primo bassista John Nichols. Il testimone di Codeine e Galaxie 500 passa così in mano al gruppo di Duluth, in questi sette minuti e mezzo lenti ma impetuosi, che non cesseranno mai di toccar(mi) nel profondo:
I guess the secret’s out Like a river flow It’s never over done Out of control

(Matteo Maioli)

5. “Death Of A Salesman”, da “The Great Destroyer” (Rough Trade, 2005)

Uno dice, come fai a scegliere una canzone dei Low. Perché ce ne sono un sacco che sono semplicemente bellissime e perché Alan Sparhawk e Mimi Parker sono due eroi per caso in una società dove contano (così pare) i “fatti” e nessuno presta attenzione alle parole. E invece le parole sono importanti, perché oltre che per comunicare, queste ci fanno vedere chiaro che cosa siamo e vogliamo veramente. Ci determinano. Scelgo questa canzone, che poi è chiaramente un riferimento al romanzo di Arthur Miller, perché questa è letteratura contemporanea, perché ci sono un sacco di parole non dette e dietro ognuna di queste ci sono delle storie di persone che non sono mai sbocciate, persone che non riescono a vivere fino in fondo la propria vita. Storie troppo ordinarie per essere raccontare e che come tali non possono che essere tragiche, come è tragica l’esistenza dell’individuo preso nella sua unicità e estrapolato da ogni contesto sociale. Forse non è la più bella canzone dei Low, non lo so, ma è la fotografia di una dimensione sensibile che molti non vedono e che molti hanno anche solo pudore e paura a raccontare. La semplicità e la forza di questo pezzo sta nella capacità di sentire quelle parole che non sono e non saranno mai pronunciate e di essere quella eco che nessuno vorrebbe mai ascoltare. Non ci sono giudizi. Non ci sono rivendicazioni. Non puoi mettere la medaglia al petto a chi non ha compiuto nessun atto di eroismo e non puoi arrabbiarti per questo. È tutto qui.
(Emiliano D’Aniello)

6. “Sunflower”, da “Things We Lost in the Fire” (Kranky, 2001)

Uno dei brani più shoegaze dei Low, una delle melodie pop più struggenti ed essenziali del loro intero repertorio. “When they found your body, giant X’s on your eyes. With your half of the ransom you bought some sweet, sweet, sweet sunflowers and gave them to the night”. C’è un video che ho fatto durante un tour degli Offlaga in Sicilia nel 2005 in cui Enrico suona “Sunflower” con una chitarra acustica, quasi accennata e per un minuto scarso in uno stanzone vuoto, enorme, che aveva un bellissimo riverbero naturale. Mi piace sempre ricordarla così spoglia ed essenziale e suonata da Enrico.

(Daniele Carretti – Felpa, ODP)

7. “Landslide”, da “Ones And Sixes” (Sub Pop Records, 2015)

Chi asserisce che i Low abbiano ormai detto tutto quello che avevano da dire commette un errore madornale. Nel penultimo album “Ones And Sixes” la band del Minnesota continua il suo peculiare percorso esplorativo arricchendo il suo sound di gelidi intarsi elettronici. “Landslide” è forse il punto più ispirato di quell’album: nove, praticamente dieci minuti di dramma sonoro, in cui le distorsioni di chitarre taglienti si alternano a momenti ballad nostalgici di “I Could Live in Hope”, prima che un tempesta di ghiaccio e noise spazzi via tutto quello che rimane del nostro cuore infranto. Un pezzo dilaniante, catartico, meraviglioso.

(Enrico Stradi)