[Cannes chiama Kalporz] Diario 13 maggio 2018

Mi ero ancora dimenticato di scriverlo quest’anno, ma è giusto ricordare come a Cannes vi sia anche la sezione dedicata ai “classici” restaurati, a volte in pellicola quasi sempre in digitale. Ovviamente la stragrande maggioranza della stampa non ne parla neanche sotto tortura, un po’ perché la carta stampata non ha alcun interesse a dedicar loro spazio – e su questo dettaglio si potrebbe aprire una riflessione sulla tragica situazione del giornalismo italiano, ma per oggi è meglio calare un velo pietoso – un po’ perché buona parte degli accrediti non è che possa garantire un’analisi storica del cinema chissà quanto approfondita. Cattiverie a parte, Cannes Classics ogni anno regala un buon numero di gemme da (ri)scoprire sul grande schermo, quello della Salla Buñuel al terzo piano del Palais. In realtà il 13 maggio 2018 verrà ricordato anche per la proiezione in Debussy del 70mm di 2001: Odissea nello spazio con tanto di presentazione di Christopher Nolan, ma di quello probabilmente avrà parlato perfino qualche telegiornale, en passant. Invece chi nella giornata ha seguito la sezione, ha avuto l’opportunità di imbattersi in due capolavori dimenticati o direttamente ignorati. Prima è stato proiettato Démanty noci, vale a dire I diamanti della notte, folgorante esordio che rivelò nel 1964 al mondo il talento di Jan Němec e contribuì in maniera determinante ad aprire gli occhi sulla nouvelle vague cecoslovacca, che anticipò i temi che sarebbero esplosi durante la Primavera del 1968. Un’opera visionaria e onirica, che racconta tra ellissi e surrealismi vari una notte in fuga per due ragazzi che sono riusciti a scappare da un treno di deportati per i campi di sterminio. Lampeggiante, oscuro e impossibile da descrivere a parole, I diamanti della notte è un’opera capitale che testimonia nella sua ora o poco più di durata quanto a volte la brevità sia davvero l’anima del senno, per rubare le parole a Polonio.

Subito dopo, nella medesima sala, è invece stato presentato Iene (Hyènes), l’opera seconda che nel 1992 diresse il senegalese Djibril Diop Mambéty, a venti anni di distanza dall’esordio: partendo da Friedrich Dürrenmatt Iene si sviluppa come un racconto morale sull’Africa post-colonizzata ma mai veramente de-colonizzata, e sull’umanità che vacilla di fronte al potere del denaro, e al potere nel suo complesso. Fiammeggiante, con un utilizzo degli spazi aperti di rara maestria.

Ovviamente non è venuto meno il concorso, in questa giornata, e così è stato possibile ritrovare il cinema di Jafar Panahi, che con 3 Faces indaga il femminile e la sua volontà di emanciparsi nell’Iran rurale. Ambientato nella regione di lingua turca che è luogo d’origine anche del regista, 3 Faces è un racconto di donne che recitano o vorrebbero recitare, e che sono loro malgrado costrette a recitare in una vita interamente pensata al maschile, e dominata dalle voglie del maschile. A una prima parte teorica sul senso del vero (la più interessante) fa seguito una seconda metà meno compiuta e più di prammatica, ma comunque non priva di interesse. Potrebbe anche convincere la giuria ad assegnargli un premio, quel premio che sembra molto molto probabile per Lazzaro felice, la terza regia per Alice Rohrwacher e la sua prova più convincente fino a questo momento. Tra Pasolini e Olmi, tra Bertolucci e Zavattini Lazzaro felice è un viaggio (sovra)naturale sulla coscienza umana, sulla volontà dell’uomo di sopraffare gli ultimi, di agire con la forza contro coloro che non possono opporre restitenza, in un gioco al massacro che non ha mai fine, e mai la avrà. Realista e surreale allo stesso tempo, il film della Rohwacher colpisce il centro del bersaglio con grande forza e acutezza. Applausi convinti.