THE AFGHAN WHIGS, “In Spades”, (Sub Pop, 2017)

30 anni di scena, una decina lontani da essa, e poi il ritorno.
Greg Dulli & co. mettono a segno un gran colpo nel 2017 con “In Spades”, ottavo album in studio della band di Cincinnati, prodotto dallo stesso cantante e leader, per Sub Pop, si proprio quella di Seattle, sopravvissuta grazie ai Nirvana.
Un lavoro completo, 10 tracce lo compongono e inseriscono fra le anomalie da 35 minuti di durata. La cura dei suoni, la loro calibrazione ed il missaggio sono di altissimo livello, il cervello pensa a come vorrebbe ascoltarli e l’orecchio li sente esattamente in quel modo. Fantastico.
La frequente presenza di archi da un sapore a tratti cinematografico, evidente in brani come “Birdland” o la ballad “Oriole”.
“Arabian Heights” si erge per il ritmo trascinante e il perfetto connubio tra potenza distorsiva e stile, il perfetto esempio di eccesso controllato.
L’underground dello Stato di Washington emerge in “Copernicus”, sfumature di grunge fine anni ’90 che sopravvivono e terminano nel contrasto con lunghe note morbide e sottili.
“The Spell”, con un inizio di piano elettrico a metà tra i Supertrump e i Manic Street Preachers, stupisce con l’orchestrazione molto, molto Foo Fighters in “The Best of You”. D’altronde, Dulli, nel decennio di pausa della sua band, ha collaborato con Grohl.
Da tutto quello detto sinora, è evidente la varietà e lo stile camaleontico che gli Afghan Whigs hanno indossato in questo disco, se c’è bisogno di prove basta arrivare alla n.8, “Light as. Feather”, pop in levare della più solida tradizione a stelle e strisce.

“In Spades” è un ottimo disco, colmo di citazioni, che ad ogni ascolto convince di più e coinvolge.

73/100

(Francesco Fauci)