Transmissions IX, Artificerie Almagià, Ravenna, 25 novembre 2016

15250862_10151134490714953_7154154672346423972_oAlle Artificerie Almagià per il primo giorno del nono Transmissions, curato da Bruno Dorella (OvO, Bachi Da Pietra, Ronin). Le pareti iniziano a tremare quando Sarah Neufeld compare nel main stage, come un ectoplasma con una vendetta da portare a compimento. “Musica per stalle e astronavi”, che a pensarci bene è probabilmente il modo più sensato di porre la questione. Violino e voce più batteria e effetti, strati di suono che montano e si disfano come maree, a metà concerto un “Italia bello suonare” buttato lì tanto per, e riprende il flusso in cui lasciarsi trasportare senza chiedersi se alla fine ci sarà uno strapiombo: l’importante è il tragitto, non dove porta. Di sicuro mille miglia lontano dagli Arcade Fire; per me, tanto basta.
15230808_10151134483304953_8189047132750150227_n
Lo spettacolo continua nel secondo palco, per dare il tempo di allestire in preparazione alla portata prnicipale; Le Singe Blanc un sottofondo per ingannare l’attesa? Col cazzo.
Vengono dalla parte Nord della Francia, come loro stessi tengono a specificare. Giusta precisazione; la parte che non fa sembrare Amélie un film realistico, la parte dove se fai una domanda in inglese, perfino in italiano, ti rispondono. Musicalmente i Pere Ubu oggi dopo un frontale con gli Helmet periodo Born Annoying/Strap It On in cui sono morti tutti i chitarristi: in pratica qualcosa di molto vicino all’idea di Paradiso se in Paradiso esistessero elettricità e amplificatori e si ascoltasse noise AmRep style come pure roba alla Pere Ubu senza le supercazzole letterarie e i rimandi criptici a libri che nessuno ha mai letto veramente. Doppio basso e batteria la loro artiglieria, falsetto sissignore ma solo per declinare allucinanti trallallà che il cervello lo fanno regredire fino in zona prenatale. La prova provata che Freud in fondo tante cazzate non ne ha dette, ma divertente: nessuna angustia se e quando la fase anale si ripresenta a chiedere il conto, perché tanto il cervello è già schizzato su Plutone nel frattempo.
singe-blanc
Tre quarti d’ora e ne vorresti almeno il quadruplo.
Si trasmigra nel main stage, la distesa di diagonali luminose (per ora spente) è dove dovrebbe essere: tutto è pronto. Non ricordo dove fossi nel 2005; di sicuro non a vedere i Jaga Jazzist. Tanto è passato dall’ultima volta che i fratelli Horntveth, Andreas Mjøs e variabili compagni hanno graziato la nostra penisola della loro cosa, che è semplicemente indescrivibile a parole, nemmeno con la più pirotecnica serie di superlativi sparati senza soluzione di continuità dal 2005 a oggi: non basta sentire, bisogna vedere. Il jazz norvegese è un ibrido strano in cui, a volerlo e saperlo fare, converge più o meno la qualunque; Supersilent e Jaga Jazzist lo yin e lo yang di questa strana bestia.
jaga
Dove i primi dilatano oltre il sopportabile la summa dei momenti morti, della noia nera, di quanto la vita sia spesso una questione di attese snervanti, colpi a vuoto, speranze malriposte e aspettative frustrate, i secondi celebrano a ogni istante l’esatto opposto: ogni secondo è necessario, quanto è bello inspirare e espirare, che gran regalo stare al mondo. Viene da crederci davvero nel preciso momento in cui ogni musicista ha preso posto tra le diagonali che lentamente prendono vita, una coreografia di luci e colori del tutto complementare alla musica che avrebbe fatto la gioia di Bruno Munari e l’invidia di Baudelaire (“Corrispondenze” un giochetto da principianti al confronto), e decolla l’astronave, e scatta la sindrome di Stendhal. Si sentono i colori, si vedono i suoni; un concerto dei Jaga Jazzist diventa la cosa più bella al mondo dopo essere vivi, come guardare la TV per Philip J. Fry. La portano avanti per un’ora e tre quarti resettando la memoria di ognuno presente qui, dal primo all’ultimo. Ho visto altre cose belle quest’anno, ma al momento non me ne viene in mente neanche una.

(Matteo Cortesi)

Foto di Chiara Viola Donati (Instagram: @chiaraviolenta)