R.E.M., “Murmur” (I.R.S., 1983)

murmurNonostante lo status leggendario dei R.E.M., nonostante i 30 anni di carriera narrati mille volte come ascesa trionfale dall’underground all’olimpo del rock, “Murmur” resta un oggetto complesso da descrivere. Il primo album dei quattro di Athens è ancora oggi, per certi versi, un mistero.

Quando uscì, nel 1983, lo era almeno per due motivi, che contemporaneamente ne costituivano gli elementi più intriganti. Primo: Michael Stipe sembrava fare di tutto per rendere incomprensibili le parole che cantava, cosa che suscitava svariate ipotesi di interpretazione destinate a restare senza conferma. Secondo: come era venuto in mente a quattro ventenni degli anni ‘80 di fare un disco tutto chitarre jingle jangle di ispirazione Byrds, rischiando di fare la figura dei tardo-fricchettoni in un mondo di sintetizzatori e spigolosità post punk?

Quanto ci fosse di premeditato in tutto questo resta da vedere. Negli anni Stipe rimase fedele a un’idea di parola cantata inscindibile dalla musica, anche se poi avrebbe mediato in favore di una maggiore intelligibilità. In “Murmur” la scelta è più radicale: parola e musica sono fonemi di un unico linguaggio, privi di senso in sé stessi.
Quanto al suono, i R.E.M. rivendicarono la propria scelta come coscientemente radicale, quasi come manifesto: anni dopo, nelle interviste rilasciate quando si affacciavano sul successo mondiale, andavano ancora orgogliosi dell’anacronismo sonoro del loro esordio. Prima che si facessero conoscere come gruppo “impegnato”, che sul finire del decennio lanciava invettive contro multinazionali e politici, il primo statement dei R.E.M. fu proprio l’abitare un suono fuori dal tempo che rifiutava le mode dell’epoca.

La singolarità di “Murmur” non lo isolò, anzi fu il magnete che catalizzò idee e tendenze di quel periodo. Le college radio adottarono i R.E.M. e contribuirono a crearne il culto, uno dei primi del nascente panorama indie rock americano. La critica li accostò alla scena Paisley Underground californiana, quella dei Dream Syndicate e dei Rain Parade. Rolling Stone arrivò a dichiaralo album dell’anno. Al cuore però “Murmur” era, ed è, un unicum.

Imparentato col rock anni ‘60, ma anche figlio della semplificazione essenziale della new wave, l’album mescola elementi basilari creando una somma ben superiore agli addendi. Grazie alla mano leggera del produttore Mitch Easter il suono del quartetto sembra sbocciare di fioriture impreviste rispetto ai pochi semi piantati: gli arpeggi tintinnanti di Peter Buck, la batteria asciutta di Bill Berry, le linee melodiche disegnate dal basso secco di Mike Mills, il suo controcanto che ora rincorre la voce di Stipe, ora la anticipa. Il risultato è assieme compatto ed etereo, teso e aperto a suggestioni, echi, risonanze. Lucidamente onirici, i R.E.M. offrono proprio attraverso la loro denominazione sociale una possibile chiave di lettura della propria musica. Anche qui, che ciò sia voluto o meno è secondario.

Quasi paradossalmente, è proprio nella iniziale “Radio Free Europe” che il mix funziona meno: il primo hit della band, riregistrato dopo la prima versione su singolo per l’etichetta Hib Tone, media in maniera un po’ goffa tra una secchezza post punk e aperture byrdsiane, tarpando un po’ l’urgenza dell’originale. Dalla successiva “Pilgrimage” tutto invece diviene magico: un continuo susseguirsi di compressioni e distensioni, in cui a passaggi secchi e riff minimali seguono chorus evocativi, con la voce di Stipe che passa dal rimuginare teso all’apertura melodica. Così è nei capolavori “Laughing”, “Talk About the Passion”, “Sitting Still”, “Shaking Through”. Altrove i quattro incanalano la propria energia in puri inni ermetici (l’esaltante “Moral Kiosk”, la sinistra “West of Fields”) mentre la loro prima ballad al pianoforte, “Perfect Circle”, dà forma impalpabile a un mondo di sensazioni intime ed universali in una sublime polaroid emotiva. Avrebbero perfezionato la specialità all’inizio del decennio successivo, ma qui volano già altissimi.

Questo è ancora oggi “Murmur”: un oggetto ammantato di mistero e disarmante nella propria semplicità. Foriero di tutto ciò di grande che avrebbero fatto i R.E.M. negli anni, ma anche episodio singolare nella loro discografia.

95/100

(Stefano Folegati)

21 novembre 2016