IRAH, “Into Dimensions” (Tambourhinoceros, 2016)

tamb140daQuello che mi pare straordinario dell’esordio degli IRAH (lo chiamiamo ep lungo? lp corto?) è la loro estrema capacità di essere all’antitesi dei tempi odierni. Se infatti è dagli anni di Chaplin che si denuncia la velocità della società industriale, è vero però che probabilmente mai si è andati così forte nella comunicazione. Comunicazione social, intendo: commentatori di commentatori di commentatori di un fatto. E si potrebbe continuare ad libitum. Insomma, i danesi IRAH sgomitano per un’oasi di pace nella confusione comunicativa odierna. Non si sta dicendo che questa era la loro intenzione, ma che ne è il risultato.
Abbandonarsi a “Into Dimensions” è dunque qualcosa di spirituale, perché la voce di Stine Grøn plana sulle ambientazioni orchestrali come un mantra d’altri tempi e luoghi. E non pare facile farlo ora. Qui non siamo pienamente dalle parti dei Portishead, perché agli IRAH manca quella componente metropolitana: il riferimento più corretto sono i belgi Hooverphonic, ma molto più soavi. Più che in Danimarca si potrebbe essere in Islanda, o al Polo Nord. Sempre più su.
Fino alle nuvole soffici di “Above My Knees”, oppure ai battiti dentro un cumulonembo come nella titletrack o lo strisciare lento dei cirri di “Showering Layers off My Skin”.
Aria, acqua, e niente terra.
La comunicazione si azzera, se si ascoltano gli IRAH. Basta like, commenti, condivisioni, solo attenzione al trio danese. Ci sarà tempo per riprendere il collegamento con il mondo, fra poco, fra qualche minuto, come sempre, per ora lasciatemi qui, immerso dentro questa nube eterea ancora per un po’.

83/100

(Paolo Bardelli)