Kula Shaker, Festareggio, Reggio Emilia, 23 agosto 2016

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“Crispian Mills, tu hai venduto anche la mamma al diavolo!”, ha scritto ieri sera live @La_Saki su Twitter. Ed è vero. La credibilità odierna dei Kula Shaker dipende in larga parte dall’empatia da leader che traspare dal frontman della band londinese, che abbina l’aspetto giovanile all’energia sul palco. Il nostro Luca Vecchi direbbe che dipende anche dal fatto che è magro (brutta storia, i rocker ingrassati dal tempo…). Un look classico che travalica l’immagine per diventare classicità di suono: potremmo dire che la camicia di jeans abbottonata (e il jeans) che indossa rappresenta in effetti quello che i Kula Shaker vogliono trasmettere, ovvero essere un ponte lineare classico tra il beat anni ’60, i primi fuzz hard-rock e la psichedelia tipici della fine di quel decennio, il britpop anni ’90 e il folk-rock in generale. Andare a vedere i Kula Shaker oggi è un po’ come – fatti i dovuti distinguo – andare a vedere gli Who, o i Pearl Jam, tutte band che puntano ad affondare il suono alla radice per renderlo più inattaccabile possibile, sempre cercando di mantenere quelle caratteristiche che rendono riconoscibili i gruppi stessi.

Un concerto, quello di Reggio Emilia, in cui i Kula hanno saputo alternare in maniera naturale loro brani storici (intendiamo quelli dei primi due album degli anni ’90, certamente i più conosciuti) alle produzioni successive, e ciò non è scontato soprattutto per la convinzione riposta in canzoni come “Sound of Drums”, “Grateful When You’re Dead/Jerry Was There” e alle inevitabili conclusive “Hey Dude” e “Govinda”, perché la stanchezza di rifare da più di vent’anni le stesse songs potrebbe farsi sentire. Invece quello che trasmesso Mills è stata la felicità di risuonare canzoni che sono entrate a far parte dell’immaginario di più di un ventenne degli anni ’90 (e forse oltre). Se analizziamo infatti le età presenti nel pubblico, la fetta maggiore certamente aveva sulla quarantina di anni, ma non mancavano fasce di ragazzi più giovani.

Personalmente sono rimasto molto colpito dalla capacità di Mills di “tenere su il suono” con solo la sua chitarra: non è un chitarrista che si potrebbe definire ultra-tecnico, ma certamente ha un’efficacia notevole. Aiutato nel complesso da una serie di gregari molto precisi (e poco espansivi), soprattutto nelle parti di basso e doppie voci di Paul Winterhart. Molto mestiere anche nell’uso della voce da parte di Mills, dato che in alcuni momenti era cristallina per poi avere qualche calo subito dopo risollevato e risolto alla grande. Ho notato qualche colpo di tosse e qualche pastiglia presa: probabilmente più che sostanze particolari erano per il mal di gola.

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L’atmosfera principale dunque è stata quella del coinvolgimento da rock-concert, meno approfondito invece il lato psichedelico, relegato a “Tattva” e poco più. Forse il lato più attuale dei Kula Shaker però è quello più folk in senso lato: la reinterpretazione di “Shower Your Love” e la bellissima ballad “33 Crows” lo stanno a dimostrare. Insomma, forse in futuro i Kula sperano di essere sempre più Bob Dylan e meno Deep Purple. A noi comunque basta che rimangano così.

Setlist:
Sound of Drums
Hurry on Sundown
Grateful When You’re Dead / Jerry Was There
Temple of Everlasting Light
Infinite Sun
Shower Your Love
303
Oh Mary
Mountain Lifter
Ophelia
Mystical Machine Gun
Smart Dogs
Tattva
Hush

Encore:
33 Crows
Hey Dude
Govinda

I concerti a Festareggio continuano stasera con i Wolfmother e domani sera con i Soulwax, attese ulteriori scariche elettriche.

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(Paolo Bardelli)