KRANO, “Requiescat In Plavem” (Maple Death Records, 2016)

KRANO_PACKSHOT_HI-768x768Nel 1961 un giovane fotografo della scuola di Minor White decide di abbandonare la sua giovane e promettente carriera da curatore di mostre presso la prestigiosa George Eastman House a Rochester (NY) per intraprendere un percorso artistico ed esistenziale che si fa nel tempo sempre più radicale, incentrato sull’armonia tra l’esperienza umana e la natura.
Da quel momento, Chappell viaggia in lungo e in largo per gli Stati Uniti, vivendo con poco, spesso nelle foreste, da nudista, fotografando le somiglianze nelle forme della natura: pietre, rocce, foglie, alberi, corpi umani. La sua è una storia pazzesca sul ritorno alle origini. Alle radici dell’uomo e dell’arte. Sulla natura intesa come luogo che forgia l’esperienza, l’espressione e la crescita dell’uomo. Sulla riscoperta di se stessi. È proprio alla storia di Walter Chappell che ho ripensato, ascoltando e scoprendo il disco d’esordio di Krano.

Krano è Marco Spigariol. Nel 2009 con i suoi Vermillion Sands fa uscire due EP con due etichette non certo anonime come Fat Possum e Sacred Bones. Sembra il salto definitivo, la consacrazione, e invece da lì a poco il progetto naufraga completamente. È la fine di un nuovo inizio: da lì a poco Marco si rifugia nelle colline del Valdobbiadene, lì dove il Piave accompagna il rapido smussarsi delle Alpi della Carnia. Presto quel mondo lontano da tutto diventa anche il suo: il paesaggio, le persone che lo abitano, la lingua parlata. Lui che fino a pochi anni prima sperava di diventare grande fuori dall’Italia, ora trova ispirazione nel dialetto veneto, nella protezione incontaminata di quei luoghi, nel fiume ricolmo di storie da raccontare.

“Requiescat In Plavem” – o semplicemente “R.I.P.” – è la storia di questa rinascita, artistica ma anche esistenziale. Un disco scritto e interpretato autenticità e purezza, nato dalle registrazioni in solitaria che Krano ha prodotto dal 2012 in poi. A contraddistinguerlo è un sound tanto elementare quanto genuino, che funziona per sottrazione, e che vede protagonisti soltanto la chitarra acustica, l’armonica, un piano honky-tonk e il cantato sbilenco (o alcolico, considerate le geografie viticole): ne esce un country-folk sghembo in grado di esprimere al meglio e anzi valorizzare sia le storie raccontate, sia le emozioni dell’autore, sia soprattutto il dialetto veneto che nonostante sia incomprensibile ai più, qui assume sonorità nobili, addirittura esterofile (!). Sarà forse anche per questo che il mix armonica+acustica in “Mi E Ti” ricorda vagamente Neil Young, che il piano vintage di “Tosca” e “Amighi” sembra arrivare dai locali blues delle pianure del Mississippi, che la chitarra scordata di “Busiero” e “Schei” potrebbe benissimo essere suonata da qualche next big thing indie-folk-lofi di Brooklyn.

Coraggioso, sincero, spontaneo. “R.I.P.” nasce e finisce nel momento in cui lo si ascolta. È un regalo estemporaneo, una fotografia. L’istantanea di un momento che è già finito. Ma finché lo ascoltiamo, Krano riesce a fare qualcosa che di questi tempi purtroppo fa quasi scalpore: ci emoziona, e parecchio.
Di album (e di storie) così ce n’è sempre bisogno.

80/100

(Enrico Stradi)