HAVE A NICE LIFE, “The Unnatural World” (Enemies List, 2014)

have-a-nice-life-the-unnatural-world-2014Sono passati solo sei anni, ma sembra passata un’eternità. Era il 2008 quando questo duo oscuro e misterioso era sbucato fuori dall’underground più underground dell’underground. Direttamente da Middletown, assonnata città del Connecticut dalle antichi origini native. Il capolavoro “Deathconsciousness”, esaltante doppio LP mai distribuito nei negozi ma allora ordinabile via email dalla loro etichetta Enemies List, era diventato un caso discografico. Qualche recensione influente, il frenetico passaparola del web, il file sharing. Bastò questo e poco altro per farsi notare a un progetto che sapeva danzare con maestria sul campo minato di una proposta musicale trasversale che dal doom passava attraverso l’industrial, la wave più gotica e lo shoegaze meno ruffiano e mellifluo. Tra riverberi, droni e voci dall’aldilà e un’estetica a esser buoni funerea, Dan Barrett e Tim Macuga sono rimasti sempre uguali. Sono sempre loro, malgrado il suono possa sembrare un filo più accessibile rispetto a “Deathconsciousness”. Come se nulla fosse successo, insomma. A quattro anni di distanza dal meno ispirato EP “Time Of Land”.

Dopo svariati progetti paralleli metal per veri adepti, nei panni di Have A Nice Life continuano lungo il loro percorso accidentato, affascinante e demodé anche in questo “The Unnatural World”. I tempi si stringono, le tracce si dilatano il giusto (solo 35 minuti la durata dell’LP), ma basta “Guggenheil Wax Museum” per fare rewind di sei anni. E reimmergersi in quell’angusto tunnel dark da Swans dello scantinato, tracciato da echi agghiaccianti e chitarre sporche. Sempre su livelli piacevolmente alti e saturi. “Defenestration Song” rivisita il post punk dei primi Killing Joke e dei Bauhaus attraverso una spietata cura industriale a bassa fedeltà da primi anni Novanta.

In “Dan And Time Reunited By Fate” celebrano con una punta di sarcasmo il loro ritorno e non a caso il brano suona come la quintessenza del loro suono così riconoscibile e appagante, benché datato. In “Burial Society” la nebbia pare diradarsi, in uno dei momenti vagamente più “ottimisti” nei lugubri paesaggi di questi due ineffabili cerimonieri del New England. Negli altri passaggi meno ritmati, prevale il richiamo degli inferi, vedi “Music Will Untune The Sky” o “Cropsey” che nasce come una strana interferenza ambientale e implode in stile Trent Reznor.

La liturgia finale “Emptiness Will Eat The Witch” esplora il lato più Godspeed You! Black Emperor del progetto. Voci aliene, rintocchi raggelanti, tappeto di organi più che mai distante. Il crescendo sembra arrivare da un momento all’altro e invece Tim e Dan guadagnano nuovamente l’oscurità. Chissà quanti anni altri anni bisognerà aspettare.

84/100

(Piero Merola)