TY SEGALL, “Goodbye Bread” (Drag City, 2011)

Siamo lieti di annunciare l’inizio di quest’estate 2011 e di parlarvi per qualche riga di “Goodbye Bread” nuovo album di Ty Segall. E non credo che si tratti di un caso. Aspirante ingegnere del suono, Ty Segall cerca “l’Album” che anche dopo dieci anni resti senza tempo, e l’estate si è sempre dimostrata la stagione eletta a rendere possibile questo miracolo. La stessa durata dei brani è una fruizione snella, fresca, allegra e malinconica come le spiagge di Brian Wilson&Co.

Non facciamo in tempo a canticchiare “Goodbye Bread” morbida entrée cantata con un sorriso sotterraneo, che parte “California Commercial”, litania laica che la brevità e il delizioso giro di chitarra a chiusura trasformano nell’annuncio della vera apertura delle danze. Tanto per cominciare la parolina “California” la dice lunga sulla visione che ispira il nostro, solo che si tratta di un luogo assente, perduto, assolato come un ricordo accecante. E il nostro giovane eroe, che ne è consapevole, sporca con la sua chitarra polverosa l’immagine che smette di essere sbiadita e diventa antica e attuale allo stesso tempo. Con pennellate psichedeliche che il suono da “scatoletta” garage squinterna, risveglia fantasmi acidi già da “Comfortable Home (A True Story)”. Lo stesso John Lennon, se fosse vivo, si impressionerebbe a sentirsi cantare nella gola e sulle labbra di Ty in “You Make The Sun Fry”, dove contende lo spazio evocativo a Syd Barrett, altro ghost-guru di quest’estate senza tempo.

Dopo “I Can’t Feel It” magistrale marcia stonata, Ty cade tra le braccia di una benevola pigrizia in “My Head Explodes”: la voce riverberata fa il paio con una chitarra abrasiva, un sentimento proto punk viene preparato e mai completamente espresso, perché la vena cantautorale è preponderante. Sentimento che forse solo in “Where Your Mind Goes” con fuzz dominante, suono secco e compresso, esprime la sua potenziale energia inesplosa, replicata nella scarna “I Am With You”, ingentilita ancora dall’indole compiaciuta del loser.
“Fine”, uno dei brani di chiusura più in tono mai fatti, arriva con elegante logica a chiudere un album graffiante e soffice, posando i generi amati da Ty su un tappeto glam, curato e non casuale.
C’è tutta l’estate per ascoltare “Goodbye Bread” e anche le prossime a venire, per capirne la portata, i richiami, le citazioni, la foresta di simboli disseminati ad arte da questo giovane autore.
In fondo la stanza da letto dove Ty Segall scrive e registra è la nicchia dentro cui si è incastonato con il suo ciuffo biondo e il sorriso timido, e dove i fans iniziano ad adorarlo. Come un’entità minore e benigna che dispensa gioia e a cui è piacevole fare voti, un leprecauno che nasconde il tesoro musicale di un eterno ritorno mostrato solo a chi sa vedere.
Se un alieno dovesse ascoltare “Goodbye Bread” crederebbe che gli umani sornioni cantano ancora come quaranta cinquant’anni fa, che non è cambiato molto da quando iniziarono a giocherellare con l’elettrico, che è in noi proprio da allora… e forse capirebbe che dopo tutto quello che è accaduto e mutato, un artista prova sempre a riallacciare i fili, a riparare le falle, a creare continuità, o a “fondare ciò che resta”.

80/100

(Stefania Italiano)

4 luglio 2011

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