WILD BEASTS, “Smother” (Domino, 2011)

Si giocano molto i Wild Beasts con il loro terzo album. Forse tutto. Il precedente “Two Dancers”, del 2009, ha fatto di loro l’astro più remoto e fulgente del panorama pop britannico contemporaneo. Gli eredi naturali di gente come Talk Talk, Associates, Blue Nile. Ma, con una mossa abbastanza sorprendente, il quartetto di Kendal (razza laghista del profondo nord, come da perfetta tradizione romantica inglese) si è tratto fuori dalla palude delle aspettative e ha finito con il realizzare un album di puro pensiero, leggero e sinuoso come una piuma di struzzo, trasparente e volatile come una forma di polvere argentata in evoluzione costante. Una clessidra dal movimento infinito, questo è “Smother”, una meridiana di pietra che rincorre la canzone del tempo. Messe da parte quasi del tutto le chitarre in favore di synth e tastiere, gli inglesi hanno sviluppato un suono più femminile e sensuoso che si caratterizza per un lavoro di sofisticatissima ricerca cromatica sui ritmi e sulle coloriture timbriche (esplorate e assaporate palmo a palmo in tutta la loro labirintica infinità, sentite “Loop The Loop”, “Plaything” o “End Come Too Soon”).

Si potrebbe paragonare questo “Smother” all’ultimo “The King Of The Limbs” dei Radiohead: un disco acquatico, liquescente, un elogio della curva e della superficie, immobile e al tempo stesso senza tregua, pieno di silenzi musicali e vibranti, che sanno assordare il cuore mentre accarezzano l’essenza della musica nell’istante brevissimo del suo autodissolvimento nel nulla più puro e perfetto. Se uno dei punti di forza più evidenti della band era la dialettica diadica tra la voce di cigno bianco del femminino Hayden Thorpe e quella gorgogliante e scura del bassista Tom Fleming, con “Smother” i Wild Beasts lasciano cadere al suolo le maschere da farsa manierista e liberano una voce nuova, fluida e riconciliata, che si trasfigura in un’eco senza fine (“Invisible”). Come passando alle geometrie di una pittura astratta (nutrita dal serialismo minimale di Steve Reich o Arvo Part) senza tuttavia smettere di essere figurativa, la band, in pezzi quali la notevole “Rich A Bit Further” e “Albatross”, libera un colore senza contorno o, meglio ancora, un suono senza forma, che non scade mai nell’esercitazione vuota, attraverso momenti di pura invenzione che sembrano muoversi pur rimanendo perfettamente fermi e viceversa.

Dovevano confermare di essere più di una semplice speranza e dovevano raccontarci chi fossero veramente, i Wild Beasts. Forse è ancora presto per dirlo, ma l’impressione, soprattutto ascoltando la voce calda e famigliare che nuota tra le correnti di “End Come To Soon”, come se appena sgorgata dalla ferita di un universo inconsolabile, è che ci siano riusciti nel migliore dei modi. Ovvero quello che mai avremmo potuto immaginare. Applausi.

83/100

(Francesco Giordani)

8 Giugno 2011

1 Comment

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *