CULTS, “Cults” (In The Name Of/Columbia, 2011)


Puntuale e inevitabile come il solstizio di giugno, arriva anche quest’anno il famigerato disco dell’estate. I Cults con la balneare “Go Outside” ci erano già andati vicini nel 2010. Voce da Sinatra-addicted (nel senso di Nancy), synth sbarazzini, campanellini ed evanescenti echi che riportano indietro di mezzo secolo. Costumi ultracoprenti, dolcivite felliniane, le Ronettes. Eppoi una dopo l’altra “You Know What I Mean” e “Abducted”. Senza pagine fan, myspace e informazioni di supporto alla pubblicazione degli mp3. Tutte e tre irresistibili anche per il più mesto dei senzacuore.

La parabola di Madeline Follin e Brian Oblivion ricorda molto quella dei Best Coast. Altrettanto improbabili e mal assortiti esteticamente. Bambolina ex-punk con frangetta da ragazza interrotta lei, capello lungo da fan anni ’90 dei Led Zeppelin lui. Divisi anche loro tra West e East Coast. Se i colleghi dopo una parentesi newyorkese sono tornati alla base a Los Angeles, i due ventiduenni di San Diego hanno scelto di abbandonare la California per motivi di studio. Iscritti a un corso di cinematografia alla New York University, subito nelle grazie di Lily Allen e della sua etichetta “In The Name Of”. I tre brani ascesi presto al rango di classici indipendenti e il gioco è fatto. Malgrado un nome cui Google lascia poche speranze, non solo per la pericolosa e fuorviante somiglianza coi Cult.

L’attesissimo debutto sulla lunga distanza non poteva deludere e infatti non delude. Il duo che dal vivo si fa accompagnare da altri musicanti dalle tendenze e movenze hard-rock ha il songwriting nel sangue. Stupisce l’estrema facilità con cui continuino a scrivere dei pezzi pop immediati ed efficaci. Senza mai scadere nella monotonia. Verissimo, la voce di Madeline è smaccatamente monocorde, ma si sa calare benissimo nei panni di una Veronica Bennett Spector degli Anni Zero, o ormai Dieci. Le orchestrazioni di “Most Wanted” e “Oh My God” fanno trasecolare il caro vecchio Phil Spector. Della serie “ci avevamo visto più lungo del previsto, chi l’avrebbe mai detto”. Fedeltà bassissima, pianole astute, chitarrine rassicuranti e la squillante voce a raccontare storie inutili e leggere. In duetto col socio che compensa con una voce più matura di quanto lascerebbe immaginare. “Bumper” è un duetto da Grease ai tempi del post-punk.

Perché lo spirito del power-pop americano resiste, vedi la conclusiva catarsi di “Rave On”. Sarà che tra le conoscenze illustri in cv può contare addirittura il compianto Dee Dee Ramone, con il quale ha registrato un brano a 9 anni. Amico di famiglia, nella fattispecie del patrigno punk-rocker della piccola Madeline.
Ma stiamo pur sempre parlando del disco d’estate. E questo debutto dei Cults trasuda sole, surf e long drink retrò. “Never Heal Myself” e “Bad Things” hanno un potenziale devastante da frivolo sculettamento balneare. Le melodie bubblegum-pop tornano alle origini tra i Cinquanta e i Sessanta. E le ripetizioni per ora non fanno che consolidare il sound dei giovanissimi californiani. Lesley Gore come sbandierato punto di riferimento e i colori pastello stile Shangri-Las piantati nella testa.

Nel tripudio di colori e cazzeggio i Cults scivolano in piccole parentesi introspettive in “Never Saw The Point” e “Walk At Night”. Torbidi break (nei loro standard, non ci si aspetti del dark) che danno una dimensione più ampia alla sorprendente qualità di scrittura dei due.
Tra cieli azzurri, orizzonti marittimi impalpabili e tramonti infiniti sfugge quasi il tetro improbabile riferimento a Jim Jones. Nel classicone “Go Outside” è infatti campionata la voce del matto predicatore statunitense poco prima del celebre suicidio di massa di oltre 900 membri della sua setta a Jonestown.
La frase diventa il macabro e beffardo manifesto d’intenti del disco, sempre nel segno dell’improbabilità, tratto divenuto ormai caratteristico per ogni band emergente della scena statunitense.

“To me, death is not a fearful thing. It’s living that’s treacherous”

81/100

(Piero Merola)

27 giugno 2011

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