TIMES NEW VIKING, “Dancer Equired” (Merge, 2011)

Devo essermi rincitrullito per bene se penso che l’ultimo album dei Times New Viking si meriti settanta centesimi. La pagherò cara, in termini di credibilità, tanto più che ormai la stampa cartacea e virtuale che aveva creato il marchio shitgaze per servire su un piatto d’argento pop punk in bassa fedeltà ha ora deciso di tirare lo sciacquone. Bene che mi va, passo per bastian contrario.

Ci tengo a dire un paio di cose su quest’album: non so voi, ma io ho spessissimo bisogno di sentire canzoni, semplici canzoni, nessuna novità sensazionale che dura un quarto d’ora al più. Qua dentro ce ne sono almeno sette od otto di quelle che girano per bene e per farsi memorizzare hanno bisogno dello stesso tempo che occorre ad una polaroid per fissare l’immagine. Di quelle banali, che magari domani ce ne saranno altre praticamente uguali e ci dimenticheremo di queste qua. Ma è esattamente questo il punto. Di dischi semplici ce ne vuole uno al giorno. Ce ne sono, direte, ma un pizzico di bravura ci vuole pure, non a suonare, ma a trovare il giro giusto sì. Banale, già sentito milioni di volte, ma giusto, che funziona. La scuola è quella minore, Neutral Milk Hotel, Beat Happening, Built To Spill. Meno consapevole, ancora meno curata, melodie concepite-scritte-registrate nel tempo che Stephen Malkmus impiega per soffiarsi il naso e non stiamo certo parlando di un perfezionista. Canzoni come kleenex, che è sempre meglio averne un pacchetto con sé che fanno comodo. Questi non sono nemmeno musicisti, santo cielo, sono tre punk ma non vogliono fare nessuna rivoluzione, nemmeno allo specchio, semmai preferiscono mangiare un gelato o passare un pomeriggio su un prato attenti a dove ci si sdraia. Di merda (shit) qua non ce n’è, semmai zucchero filato. Ogni tanto si finge pure che i Velvet Underground siano ancora insieme. E soprattutto che non siano degli stronzi eroinomani.

Lo riconosco, è un rigurgito adolescenziale in righe. Ma io un’adolescenza così mica ce l’ho avuta. Quando ero al liceo tutti i gruppi della mia città facevano schifo. Ovvio, pure quelli in cui suonavo io. Abbiamo passato gli anni duemila a scimmiottare i novanta (ma io “Zombie” non l’ho suonata e questo ci tengo a precisarlo). E adesso siamo agli anni dieci e qua attorno spuntano cover band di Strokes e Franz Ferdinand suonati come se fossero gli Incubus. In dieci anni nessuno che si sia mai preoccupato di scrivere una canzone che valesse la pena di cantare. Forse solo Edoardo di Latina, ma quello ancora non ho capito se è un genio, un matto o un paraculo e comunque adesso sta lavando i piatti a New York per cui ce lo siamo giocato. E poi, appunto, è di Latina. Il punto è che io non ho mai preso un’insufficienza all’interrogazione di latino perché il pomeriggio prima l’avevo passato a scrivere una canzone di getto da dedicare a qualcuno e penso che in tutto il mio liceo non l’abbia fatto nessun altro.

Che poi per quanto ne so io magari i Times New Viking hanno più di trent’anni, un dottorato in economia politica sulle spalle e passano ore in sala prove per trovare l’effetto trasandato ad hoc per ogni pezzo. Se è così non voglio saperlo.

E non provateci nemmeno a dire che di canzoni così, con una scheda audio da due soldi e il microfono del CantaTu, siete in grado di registrarne una al giorno. Se è così, cosa state aspettando?

70/100

(Lorenzo Centini)

25 maggio 2011

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