EGOKID, “Ecce Homo” (Novunque, 2011)

“I Soldi Sono Finiti” cantavano un tempo i Ministri mentre infilavano la monetina da un euro in ogni custodia del loro primo ciddì. I loro concittadini Egokid, al traguardo del terzo album, costruiscono oggi sullo stesso sconnesso terreno di allora, e, osservando l’umanità metropolitana che si affaccenda nella sublime vanità dei propri crucci quotidiani, mettono subito le cose bene in chiaro e senza troppi peli sulla lingua biforcuta, sin dall’inaugurale “L’Uomo Qualunque” (e chi pensa di non essere iscritto a questo partito scagli la prima consumazione da riscuotere al bancone della propria autoillusione): “Non Abbiamo I Soldi Per Comprare La Coca/ Per Fare La Bella Vita/ Perciò Tiriamo Una Riga E Cancelliamo La Storia”. Appunti la cui arguzia saettante è pari solo al fondo caustico di cinismo, e che vanno a comporre il canto funebre perfetto, volatile e grottescamente disperato, di un sistema di certezze liberali a pochi centimetri dal proprio irreparabile tracollo di significato.

Poi parte “Ragazze+Ragazzi” sul tema di “Boys And Girls” dei Blur e, ad ogni nuova pennellata di synth, si fa sempre più corposa la certezza di stringere tra le orecchie un trattatello di antropologia pop semiseria che mette a tema del giorno la deriva euforicamente annichilente dei nostri rituali sociali. Con l’aiuto del nume tutelare Fausto Rossi e di Sergio Carnevale (già batterista dei concubini Bluvertigo), la band guidata da Diego Palazzo (lo si è visto di recente come chitarra aggiunta dal vivo con i Baustelle) e Piergiorgio Pardo (entrambi peraltro con all’attivo anche una vita parallela come giornalisti musicali di vaglia) raccoglie un canzoniere di prima grandezza, con momenti pregiatissimi di pura invenzione musicale e una duttilità stilistica da far invidia agli Sparks coreografati da Paolo Poli su testi di Alberto Arbasino.

Pattinando tra Garbo e Battiato, questi Egokid, con bibliografia nietzschiana in rilegatura pregiata ben premuta contro il cuore, inanellano una serie di piccoli miracolosi cristalli (non per niente forgiati nelle Officine Meccaniche con l’aiuto dell’orafo Taketo Gohara) in cui melodie da batticuore brillano su superfici di suono levigate quanto impertinenti, nel loro sbuggerare citazioni e furti d’autore a mani basse (sentitevi “Una Vita”, capolavoro nel capolavoro, “Universo”, “Sirene” e “Non Si Uccidono Così Anche I Cavalli?” e iniziate a contare quanti potenziali Sanremo che avreste voluto sentire siano contenuti dentro questi motivetti maliziosi e senza scampo). Quello che ne cola fuori, plumbeo ed esilarante insieme, è il ritratto di gruppo di un’umanità fatta ormai quasi soltanto da tirocinanti a tempo indeterminato e turisti inebetiti nel villaggio vacanze del meraviglioso Capitale. Ad aguzzare un po’ lo sguardo non si fatica neanche troppo a trovare sé stessi, un po’ decentrati, in un angolino fuori fuoco. Risate.

80/100

(Francesco Giordani)

18 marzo 2011

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