FORTUNA, “Fortuna Feat. Asia Argento” (Poor Records, 2010)

Ah, questa moderna gioventù! A cosa non si piegherebbe per “esserci”! Quanta spavalderia tecnologica e sfacciataggine da socialnetwork riuscirebbe a ostentare pur di partecipare all’agognato status del riconoscimento! Kid Chocolat, The Knack e Oil sono tre sedicenti produttori italiani, appartenenti a quella cerchia di musicisti che sembrano voler fare della dance un’espressione pseudo artistoide, raffinata. La loro produzione è un’house poco ballabile e poco aggiornata, electro dilatata e vagamente psichedelica, roba che neanche un dodicenne che gioca da tre giorni con Fruity Loops si sognerebbe di considerare all’altezza di pubblicazione. Penso che i Fortuna siano abbastanza coscienti di questa inconfutabile evidenza. Ma al giorno d’oggi la faccia tosta è tutto, basta credere o far credere di essere qualcosa e lo si è. Si suona in un club considerato fico, frequentato da gente convinta di essere fica e va dà sè che ogni cagata suonata in data circostanza si traformi immediatamente in un concentrato di fichezza, ma mettere su disco. Ciò che più importa è l’esposizione. Basta attirare su di sè un po’ di curiosità, atteggiarsi nel modo giusto, seguendo la norma dei percorsi avvertiti come i più costruttivi. Nel caso specifico, la mossa “vincente” sta nello sfruttare la vocina e sopratutto il nome della magnetica Asia Argento. E sperare nel giusto remix. È quasi una presa per il culo. Anzi togliamo il quasi: è una presa per il culo. L’idea di questo disco è becera fino al midollo: sfruttare il nome di una attrice abbastanza famosa a livello internazionale (per essere figlia d’arte e per alcuni film ambiguamente sensazionalistici, molto simili per tentativo malrisucito alle logiche di questa produzione musicale) e a livello nazionale (per essere figlia d’arte e per i suoi litigi con l’ex compagno dal nome esotico e famoso) per dare lustro e senso alla pubblicazione di qualcosa di inutile. Il mondo va così, il gioco dell’apparenza significa tutto. E va bene… Il problema del fine riguarda solo la decenza, un concetto fuori moda e poco adatto all’interno delle meccaniche funzionalistiche dell’autoindulgente nichilismo contemporaneo. Se fossimo almeno al cospetto di un disco, di un vero disco, di produzioni accettabili, avrebbe pure senso fare i moralisti e chiamare in causa Aidos, la personificazione della vergogna, l’amabile e saggia dea che dimora tra gli antichi greci per aiutarli a conservare amor proprio e dignità. Ne Le Opere e i Giorni Esiodo racconta di come questa dea, sconfitta dall’indifferenza e dall’insolenza umana, deciderà di abbandonare una volta per tutte la Terra, ritornando al suo Olimpo. Prodotti del genere, come questo licenziato dalla Poor Records, ci informano sul compimento della profezia del poeta. Le “produzioni” para-elettroniche del trio spaziano, annoiate e poco incisive, tra echi pinkfloidiani (“Lament”), depechemodiani (nel basso pulsante di “Roma”) e airiani (“A Radical Bravery”). Tanta patina wave, un po’ di New Order qua, un po’ di French Touch là e il polpettone è pronto. Se proprio ci preme cercare qualcosa di buono, potremmo considerare la strutturata “Black Water”, ma solamente perchè suona come una cover apocrifa di quel gioello di decadenza mittleuropeo che è “Model” dei Kraftwerk, e l’ipnotica e darkeggiante “Daybreack”. Cosa dire di Asia Argento? Mugula, balbetta e si strozza su cinque pezzi, in inserimenti molto approssimativi. Niente melodia, nessuna fantasticheria. Non si riconosce manco il suo irritante, ma almeno personale, tono impastato da bambina che fa la cretina. Ma se parliamo di questo disco è unicamente perchè c’è il suo nome in copertina, sennò…

(Giuseppe Franza)

7 gennaio 2011

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