MAGIC KIDS, “Memphis” (Matador, 2010)

Ormai è chiaro che le cose più interessanti che l’America ci regala mensilmente in termini di musica indie potrebbero benissimo essere stati registrate e pubblicate tra il 1959 e il 1967, magari con il patrocinio produttivo di un Phil Spector. Dalle Dum Dum Girls ai Best Coast, passando per Drums, Vivian Girls, Tennis, Smith Western o Frankie Rose And The Outs, tutti i nomi ricopiati con rapinosa dedizione sulle nostre moleskine sbrindellate, sembrano riverberare come frammenti scheggiati di vecchi specchi la luce abbagliante di un’estate mitica dell’umanità (quasi uno “stato di natura”)  che si fatica a lasciarsi alle spalle (e questo dovrebbe forse farci riflettere sull’essenza più intima dei tempi attuali che andiamo affrontando).
Di nuovo c’è magari un approccio orgogliosamente DIY di matrice hardcore-punkettera, all’insegna di un’autogestione pseudoimprenditoriale e vagamente anarchista della band e delle loro etichette dopolavoristiche, che incidentalmente si ritraduce sul piano sonoro in un canzonettismo lo-fi spontaneista e felicemente filastroccoso, molto C86, tutto melodie facili facili, riverbero a briglia scatenata e ingenui accenti poetici da “buona la prima”. Il candore naif diventa religione della sincerità, rifiuto della falsità della complessità, e la musica, da elaborata pittura dei sentimenti capace di immaginare serie infinite di mondi potenziali , passa al bozzettismo minimalista dello sketch e dell’appunto impreciso, al diarismo sbavato e dai colori tenui e indefiniti della “vita e nient’altro”. Dimenticando che oltre alla purezza incontaminata del sogno sovrano, in gente come Brian Wilson (o anche Phil Spector) fortissima era la pretesa di costruire una musica “totale” (che cioè fosse Tutto), l’ambizione non negoziabile di attingere la perfezione estetica di una grandezza assoluta in cui perdere e ritrovare sé stessi o riscoprirsi “più” di sé stessi.
I giovanissimi Magic Kids, da Memphis, testimoniano anche loro di questa regressione, di questa metaforica ricostruzione plastica di un imene perduto prima ancora di nascere, prodigandosi, con una cifra più personale rispetto ad altre band cugine, in un ritorno alla magia dell’incanto bambinesco, alla schezosità e al buon umore e, visto che di musica pop stiamo parlando, all’infanzia cantilenante e adamitica della musica pop stessa. Cioccolatini e mentine farcite di cannella come “Superball”, “Candy” o “Hey Boy” una volta addentate sanno di un po’ di tutto: doo-wop, beach-pop, surf, soul, girl groups, boggie, rock’n’roll, big band e chi più ne ha più ne metta. Il gruppo, nell’edificare i propri castelli di sabbia in riva ad un mare calmo di nostalgia,  tradisce un calligrafismo filologico che lascia di stucco e si schiude a poco a poco in piccole pergamene chamber pop ed acquerelli marinareschi da infilare in una piega del portafogli. Ditate di violini guizzanti, svirgoli di armonie vocali pastose come colori a tempera, ghirigori ritmici tendenti al decorativo, disegnano pezzi come “Little Red Radio” o “Good To Be”, che dagli Hollies, Buddy Holly e Gene Vincent rimbalzano sulla gomma masticabile di Jonathan Richman (grande eroe inconfessabile e inconscio di questa generazione di artisti). Le melodie prendono forma, filando il chewingum asessuato dei girl groups, per poi appiccicarlo sulla punta arrotondata dei surf dei fratelli Wilson che se ne stanno ben impiantati come stecchi di gelato sulla spiaggia di un sogno gratuito ma piacevole, finché dura. Voglio ridiventare vergine anch’io, ragazzi.

(Francesco Giordani)

Collegamenti su Kalporz:
Dum Dum Girls – I will be
Best Coast –Crazy For You
Beach Boys – Pet Sounds

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *