THE MORNING BENDERS, “Big Echo” (Rough Trade, 2010)

L’incessante lavoro di gruppo supporter per importanti band, il premio nel 2008 per il miglior album alternative, un video (“Promises”) opportunamente diffuso in rete, il nuovo album prodotto da Chris Taylor (bassista e produttore dei Grizzly Bear) e il risalto di web magazine che fanno tendenza, hanno fatto dei giovani Morning Benders, californiani di Berkley, una delle nuove promesse dell’indie d’oltreoceano. Numerose prove a loro favorevoli. Però quello che ci vuole per far sì che le promesse vengano mantenute, è il talento. Un po’ come il finale giusto per fare di una storia ben narrata, una storia indimenticabile. E non si può negare che i fratelli Chu & Co con “Big Echo”, la loro seconda prova, abbiano mostrato di possederne in quantità sufficiente da incuriosire, da metterci nella predisposizione dell’attesa, dell’osservazione speciale.
“Big Echo” si presenta come il tipico album da “prime prove” di una band talentuosa che prova a  riassumere in sè tutte le fonti musicali sulle quali ha misurato il suo stile, come a dire “iniziamo da qui”. E “qui” consiste soprattuto nella musica degli Shins e dei Grizzly Bear.
Quindi non dovrebbe stupire ritrovarsi all’ascolto di un album di imitazione, non definito, dallo stile derivativo, indeciso, e tutto quello che può venire in mente per parlare di un frutto ancora non maturo.
Ma dopo esserci ripresi dal pur inevitabile stupore, non possiamo negare che per il resto “Big Echo” (bel titolo, non c’è che dire) sia giovane: sa di estate, ma di quelle che solo la giovinezza può ricordare, di emozioni nostalgiche e stagioni leggere, di spiagge californiane impresse nella memoria, di atmosfere sognanti e trasognate che ci fanno guardare attraverso una coltre lieve immagini e paesaggi trascorsi. Come si può non essere indulgenti?
Un’escursione tra i brani fa emergere abbastanza chiramente una sorta di inconcludenza coerente. Se “Excuses”, apri pista che con il crepitio di polveroso Lp ci adagia sulla spiaggia da acquarello già presagita nella copertina, è il manifesto arioso cui guarda l’intera playlist dell’album, “Promises”, brano indie che più classico non si può, ci riconduce a toni più chiusi, stretti, urbani (inoltre non prova a discostarsi molto da “Two Weeks” dei Grizzly Bear).
“Wet Cement” pigro con il suo coretto di commento, con un giro di basso da passeggiata e una chitarra che “parla” opportunamente, è un gentile buffetto, mentre “Hand Me Downs” con un timbro vocalico dark sarebbe stato un esempio di oscura new wave, tradendo così per un istante l’anima segreta dell’intero album, vale a dire il fatto che dietro una grande eco… segue un vuoto che disperde i ricordi migliori.
“Mason Jar”, contraltare alla psichedelica “Pleasure Sighs” (suggestiva al punto giusto), è un risveglio acido, ancora sonnacchioso, che accellera a metà durata come una giornata che deve essere freneticamente afferrata, per poi fermarsi nuovamente, nella contemplazione forse di qualcosa di interiore.
Un album svagato e svogliato dunque, come una chiacchierata un po’ alticcia a tarda notte, in grado di tenere compagnia per i suoi 38 minuti e passa, un album di cui si può apprezzare lo spirito indie, e la nostalgia di qualcosa che sbiadisce nell’indefinito della memoria. Questi ragazzi iniziano da qui, e dopo aver contemplato ciò che li ha preceduti forse sapranno regalarci future avventure sonore. Di quelle che mantengono le promesse…
Per questo mi piace pensare a “Big Echo” come alla freccia che viene aggiunta alla faretra, in previsione di altri tiri da scoccare per fare centro veramente!

(Stefania Italiano)

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