THE DRUMS – “The Drums” (Moshi Moshi Records / Island Records, 2010)

THE DRUMSPerché mai si dovrebbe spendere una parola in più per l’ennesima band che viene fuori sbandierando influenze anni ’80? Per di più nel 2010, a margine di un decennio in cui il sound tra il tributo e il plagio ai grandi vecchi della new wave è stato una costante. “Siete arrivati tardi”. Verrebbe da urlare in faccia a quattro gonzi di Brooklyn che rispondono a un nome non poco banale, quale The Drums. Così poseur e costruiti. In un look da hipster ai limiti dello stereotipo, tra frangette, camicie a quadri abbinate improbabilmente a skinny. Calzino sempre in vista, meglio se bianco, aria scazzata e allo stesso tempo intellettualoide. In questo sembrerebbero venire dall’altra parte dell’Oceano. Dalla stanca e patinata Londra indipendente piuttosto che da La Mecca della nuova musica contemporanea. Ecco, il trucco magari è proprio questo. Sbarazzini e paraculi nel modo di porsi quanto gli inglesi, bravi a crearsi un’immagine quanto nel tenere in mano gli strumenti. E altrettanto bravi nel songwriting.

Che l’influenza di Cure, Smiths, Orange Juice e via discorrendo sia, a esser buoni, piuttosto palese importa poco. Non sarebbe una novità da dieci anni a questa parte. I quattro, lasciatisi alle spalle le velleità electro-pop della loro formazione d’esordio, i Goat Explosions e le crisi d’identità degli Elkland, hanno trovato in questa formula apparentemente trita e ritrita la famigerata quadratura del cerchio.
Il loro EP “Summertime!”, dall’estensione peraltro anomala, ha fatto tremare la terra fino a smuovere NME. Roba non da poco, per degli esordienti americani. A riprova dell’appeal alquanto british della loro proposta. “Let’s Go Surfin'” da subito e meritatamente diventa uno dei tormentoni del nuovo decennio. Ritmica figlia del post-punk levigata da ogni impurità distorta e corrosiva. Fischietto d’annata che prova a scalzare dall’immaginario contemporaneo quello di “Young Folks” di Peter, Bjorn & John.

Testi di una leggerezza esasperante e melodie che entrano in testa senza ritegno. Nell’omonimo LP d’esordio il brano che li ha resi celebri non può mancare. Così come mancano “I Felt Stupid” e “Make You Mine”. E non manca dal canto suo un altro piccolo gioiello, la ballad “Down By The Water”: come Robert Smith rivedrebbe Paul Anka. In questo tipo di risposta da East Coast ai Girls, il revival dei Drums dimostra la loro statura compositiva. E la loro varietà. I nuovi potenziali tormentoni quindi non mancano, dal secondo singolo “For Ever And Ever Amen” e “Best Friend”. Le scheletriche chitarre da drogati di Talking Heads e Johnny Marr non vanno mai sopra le righe. Essenziali e usate come tastiere colorano le giocose atmosfere da indie-pop svedese (“Skippin’ Town”, “We Tried”). Rispetto a Shout Out Louds, The Legends o ai Tough Alliance (che figurano tra le loro dichiarate influenze), emerge, non si sa se per l’aria da meltin-pot di Brooklyn , una maggiore originalità negli arrangiamenti. Tutto e il contrario di tutto, in un meltin-pot musiculturale che svaria dagli spunti dei Vampire Weekend al neo-surf dei nostalgici più Sixties. Con una solida base wave da filo conduttore. Nell’impianto ritmico e non solo. “Me And The Moon” sembra un’outtake degli Orange Juice suonato dai loro allievi prediletti.

La ripetitività delle soluzioni può stancare, un po’ anche per la voce monocorde di Pierce, ma in fondo caratterizza e consolidare il Drums-sound (“The Future”, “I’ll Never Drop My Sword”).
“Book Of Stories” e “It Will All End In Tears” dalla profondità introspettiva sempre latente anche nei panorami più solari di maestri quali gli XTC o gli Smiths, non si vergognano di scivolare in adolescenzialismi strappalacrime da college. E i testi in questo fanno senz’altro la loro parte, nemmeno lontanamente assimilabili all’intenso lirismo di Morrissey e soci. Il loro manifesto d’intenti, per dire, è “I Need Fun In My Town”. Che peraltro come messaggio, visto dalla prospettiva italica di decadenza e piattume culturale, fa venir voglia di mandarli a cagare senza appello. Molto più medi e sempliciotti con un mood contrario ai seghementalismi, “The Drums” è l’album che arriva al momento giusto. Assunta per data la tendenza contemporanea al revival, sembra interessante un rimescolamento trasversale degli spunti. Cronologico e geografico. I Drums lo mettono inconsapevolmente in atto, come del resto altre band di punta della scena statunitense (MGMT, Deerhunter, Tv On The Radio per fare dei nomi a caso). Che sia questo in definitiva il segreto della scena-non-scena di Brooklyn, più che l’ostentato hipsterismo estetico starà ai posteri stabilirlo.

Nel frattempo, prima che finisca l’estate, sarebbe delittuoso non godersi con la stessa leggerezza fancazzista “Let’s Go Surfing” e le altre undici colonne sonore della confusa New York del nuovo secolo.
Eppoi, come dargli torto. The Drums, per quanto banale e paraculo, evidentemente funzionava meglio di Elkland.

(Piero Merola)

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