ALMAMEGRETTA, “Dubfellas Vol.2” (Sanacore Records / Edel, 2010)

Infaticabili Almamegretta, nonostante tutto (e in questo tutto c’è la gavetta, il successo discografico, la morte del genere, la morte del dubmaster, la fuga della stella e la tragica collocazione geografica italiana), continuano a portare avanti quel difficile percorso di metamorfosi e di esodi culturali e musicali e di ricerca originale, che è titanica resistenza, in un paese, in un mondo, come il nostro.

Tornano i delay, i riverberi e i ritmi flemmatici del dub elettronico con “Dubfellas Vol.2”, collezione di brani ballabili in continuità con il precedente “Dubfellas” del 2007. Un disco ripetitivo per un gruppo, da qualche anno, ripetitivo, che fa un genere per sua natura ripetitivo. Almeno lo sforzo di non ripetersi nel titolo dell’album! E che cazzo! La novità minima sta nell’utilizzo di più parti cantate. Per il resto, c’è il Raggae di sempre, il vecchio Trip Pop à la Trinky, la batteria Jungle, l’elettronica (sempre molto curata e d’atmosfera), che piace tanto ai cciovani d’occi, un pizzico di techno, che la pillola va giù, e qualche chitarrina distorta, che fa la sua porca figura nei live. Le melodie originali latitano, così come i colpi di genio.

Utili e ben calibrati risultano gli apporti in fase collaborativa di Neil Perch (dubmaster e fondatore degli Zion Train), del vocalist Marcello Coleman e di Julie Higgins aka Princess Julianna (già in “Vulgus” e “Lingo”). Penosa la presenza di Raiz (nella sospirante e pacchiana “Rescue”) ed insopportabili gli inserti parlati. Meno Napoli (il dialetto partenopeo si sfoga solo verso metà disco, sulla disordinata “Once in a Lifetime”) e più Londra, più Jamaica e meno Nord Africa: cambiano e si standardizzano le coordinate geografiche; si punta alle vibrazioni e alla scelta dei suoni.

Gli Almamegretta vogliono produrre e si sà che a Napoli è difficile essere produttivi, perchè si preferisce il disimpegno, il lampo di genio e si è dominati dalla forza della disperazione e dalla spontaneità. Gli Almamegretta sono stati indubbiamenti grandi, per la rabbia declinata con stile e originalità e per la visceralità, nobilitata da un percorso estetico multiculturale di tutto rispetto. Oggi sono un gruppetto, dalla perduta intuizione. Sono bravi esecutori e ottimi produttori, ma mancano di senso. Prendiamo il primo brano del lavoro, “My Time”: parte fresca, super-dub e danzabile ed ha un arrangiamento niente male, in bilico tra house intelligente e raggae veloce e sperimentale, ma non incide, nè sorprende. Stesso discorso per “Healing Step”, piena di effetti carini e supportata da un coro molto caldo e afrocaraibico dolcemente mixato al levare elettronico, una buona introduzione che non esplode mai e che si incarta nell’ovvia ridondanza.

Più interessante è l’ascolto di quei frammenti più sperimentali, i cui gli Almamegretta tornano a giocare con le atmosfere. “Ppp”, in questo senso, risulta più divertente e coinvolgente. Quì il rullante torna a spezzare con decisione le onde sonore e a frizionare una melodia in rincorsa, tutta circondata da suoni analogici e sintetici, giocosamente sperimentali. In altri momenti si sovraccarica e si copia (si pezzotta, come si dice a Napoli), come nella carina, ma già troppo sentita, melodia di “Drop & Roll”. Tamarrissimo il remix finale (“What have you Done?”) che chiude l’album. Ma chi cazzo l’ha fatto? Una Bestia? Paradossalmente è il tentativo di rinnovarsi e di adeguarsi ai nuovi linguaggi di un genere, sempre più vittima della tecnologia e della dittatura del dancefloor, a rendere gli Almamegretta così provinciali e inoffensivi. E pensare a quando, anni fa, partendo dalla coscienza della propria ineluttabile provincialità riuscivano a incantare l’Europa intera. Ma chi ha avut, ha avut, ha avut, e chi ha dat, ha dat, ha dat, scurdammc ‘o passat, simm e Napule paisà.

(Giuseppe Franza)

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