Intervista ai Baustelle

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A dieci anni dal Sussidiario illustrato della giovinezza i Baustelle sono diventati “grandi”.

Lo dimostra il loro ultimo disco, I Mistici dell’Occidente. Un lavoro bello e coraggioso, che se da un lato si ispira liberamente al doppio volume omonimo di Elèmire Zolla, dall’altro si potrebbe senz’altro definire un album politico. Di una politica però che, alla sinistra, alla destra e al centro, preferisce una quarta via, quella dell’“elevazione”.

«Sì, mi piace pensarlo come un disco politico nel senso nobile ed etimologico del termine – dice Francesco Bianconi – ma che vorrebbe andare anche un po’ più in là. I testi sono scritti da un ateo, però c’è comunque una sorta di ricerca spirituale e soprattutto il tentativo di ripensare la nostra condizione di esseri umani in questa società».

Ascoltando le dodici tracce si rimane avvolti da atmosfere morbide, citazioni western e da affascinanti chiaroscuri, annunciati fin dal primo brano, L’indaco, che contiene un’immagine particolarmente nera: il passaggio di un carro funebre.

«È l’immagine più triste che si possa pensare, ma la canzone ti invita a lasciarlo passare e a non bloccarlo. Noi spesso roviniamo la nostra vita sopravvalutando l’importanza dei momenti negativi, e L’indaco è una specie di “canzone-amico”, che dice: non buttarti giù perché c’è sempre una speranza.

Quindi siete diventati ottimisti?

«I Mistici dell’Occidente è un disco in cui per la prima volta i Baustelle sono ottimisti, seppur non nella maniera più immediata possibile».

Quanto vi siete divertiti a realizzare l’immagine in copertina?

«Davvero tanto. Volevamo fare una copertina che in maniera ironica racchiudesse alcuni temi del disco, e l’idea ci è venuta dalla foto di Tropicalia: ou Panis et Circenses, disco del 1968 che a sua volta era un’imitazione di Sgt. Pepper’s dei Beatles. È una specie di sfida ai nostri fan, che tra l’altro sono molto preparati e ci scrivono le loro interpretazioni quasi fosse un gioco interattivo».

C’è la voglia di ridare valore a ciò che sta attorno alle canzoni?

«Senza dubbio. E tutto nasce dal fatto che si è persa la mitizzazione. Comprare un disco in vinile, leggerne i testi, essere costretto a girare il lato, ti costringeva a una fruizione del disco simile a quella di un libro. Mentre lo ascoltavi magari guardavi le immagini di copertina, l’art-work, eccetera. E su questo io ho anche la strana convinzione che nelle camerette dei giovani ci siamo sempre meno poster. Magari mi sbaglio. Questo per dire che la musica è diventata un bene privato delle sue caratteristiche mitiche, per citare Roland Barthes, diventando più un sottofondo che si fruisce dalle casse dei computer, dalle cuffiette degli I-pod o dai cellulari. E anche per questo non si vendono più i dischi.

Nei testi dei Mistici dell’Occidente sembra esserci anche una forte critica alla “società dello spettacolo”.

«Assolutamente sì. Sembrerà retorico e banale, ma io stesso come musicista dei Baustelle mi trovo in difficoltà con la moderna società dello spettacolo, che è ormai un aspetto inscindibile dell’Occidente. Lo spettacolo ha del resto invaso qualsiasi altra sfera del vivere sociale e civile».

Ma La Canzone della Rivoluzione parla di una rivoluzione ben diversa da quella degli anni Sessanta e Settanta.

«Rivoluzioni vere, violente e di massa sono quasi impensabili nel mondo d’oggi. Non ne siamo più capaci. Quindi qui si parla di una rivoluzione più individuale, spirituale, ed è soprattutto un invito alla presa di coscienza e al non addormentamento. Si è persa la capacità di critica e di analisi, e siamo diventati dei creduloni. Bisognerebbe invece essere un po’ più come dei San Tommaso.

(Maurizio Di Fazio)