GIRLS, Album (PIAS, 2009)

Eppure, nonostante tutto, esistono ancora gruppi come i Girls. Questa inedita band di San Francisco, guidata dall’accoppiata Christopher Owens/ Chet White, ci ha infatti regalato un disco che non dimenticheremo facilmente, una manufatto di rock perdente e gioiosamente lacrimevole, una piccola mandorla agrodolce di romanticismo ombelicale, disfattismo amoroso e disperata vitalità (in senso pasoliniano). Il già citato Cristopher Owens, deus ex machina del progetto, proviene da una famiglia di rigidissime tradizioni religiose, con un fratello morto per la totale sfiducia di queste ultime nei confronti di qualsivoglia cura medica, un padre scappato, una madre girovaga e costretta a prostituirsi, e un miliardario che si è preso cura di lui almeno fino a quando non ha deciso di diventare un fannullone stordito di pastiglie e visioni per le strade bruciacchiate dal sole e dalla salsedine di San Francisco, dove i suoi (le sue?) Girls hanno mosso i primi passi.

Con in testa fantasie dal gusto potentemente retrò e una discendenza perfettamente inattuale che rinvia con gusto ed eleganza melodica alle fonti primigenie di Buddy Holly (ascoltate il mimetismo sfrenato di “Big Bad Mean Mother Fucker”), Roy Orbison, Brian Wilson ed Elvis Costello, i Girls hanno composto un piccolo monumento tascabile alla gioie private dell’autocommiserazione poetica, qualcosa che sta tra gli Smiths più crudeli e i Pavement, rivissuti però con un piglio arruffato e casinista degno dei Lemonheads. Così, riscaldate dalla luce stanca e intiepidita di un tramonto denso, le canzoni di “Album” rimbalzano sull’asfalto di amori mancati e inettitudine meticolosamente coltivata, sfiorando esiti di grandissima penetrazione emotiva in pezzi come “Laura”, “Lauren Marie”, “God Damned” o l’interminabile peana tumefatto di “Hellhole Retrace”. Canzoni dal passo felpato e dolcissimo, ben glassate in uno zucchero di morbide melodie sixties, infarcite però di acre pessimismo e purezza traviata come in una nuova generazione X sporgente sullo spaventevole buco nero di sé stessa.

Dal giovane Holden passando per i romanzi di John Fante, fino a lambire l’epica postmoderna di pellicole come “Little Miss Sunshine”, è questa l’America che si ritrova nella canzoni dei Girls, meravigliosamente imperfetta e farfugliante, iperreale fino alla vertigine, un’America in bilico tra il dolore dei troppi sogni infranti e un acuto senso di solitudine affollata. Pochi dischi come questo incutono speranza, pur essendo così profondamente disillusi e feriti. Pochi dischi come questo sanno scrivere un sorriso piccolo ma ostinato tra i mille pensieri che scorrono, pur essendo un’unica bellissima smorfia di disgusto.

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