THE DUCKWORTH LEWIS METHOD, The Duckworth Lewis Method (Divine Comedy, 2009)

Neil Hannon si prende una salutare vacanza dal progetto per cui il suo nome risulta iscritto alle pagine tipograficamente più sontuose della storia del rock, vale a dire Divine Comedy, e realizza un disco-pesce d’aprile interamente dedicato alle delizie del cricket (!?), insieme all’amico Thomas Walsh, titolare del progetto Pugwash (del giro dell’ex XTC Andy Partridge). Come potremmo presentare un siffatto paradossale lavoro? Forse come un piccolo passatempo per annoiati gentlemen dal piglio aristocratico che coltivano una misura eccentricità giocando a bridge e sorseggiando tè, su un prato sfalciato di fresco che riflette la luce tiepida di un tardo pomeriggio all’ombra della regina bloccato per sempre nel tempo. Ma, c’è da ammetterlo, un passatempo confezionato con grazia da vendere e sofisticata erudizione.

I magnifici (e assolutamente da rivalutare!) dischi-libro dei Kinks (da “Arthur” a “Lola”, passando per “Village Green”), la nostalgia per un certo musichall piacevolmente opaco e domenicale che si rintraccia in certi momenti ispiratissimi dei Madness (anche nel loro ultimo “The Liberty Of Norton Folgate”), il melodismo più glassato di Beatles, Zombies o Hollies, la pasticceria pop esoterica di XTC e annessi Dukes Of The Stratosphere: nei Duckworth si incontrano schegge disordinate di un po’ tutto questo insieme a, ovviamente, carrettate di canzoni da arresto cardiocircolatorio per tutti i melomani pop ancora in circolazione.

Da “Age Of Revolution” fino a “The Nightwatchman”, infilando le bellissime “Gentlemen & Players” e “Mason On The Boundary”, il disco è tutto un rimpallare di melodie signorili, orchestrazioni modellate con un senso a dir poco miracoloso dell’equilibrio e dell’armonia architettonica, e cadenze ariose e swinganti snocciolate con accento piacevolmente educato e demodè, come se a comporre e a cantare fossero certe cordiali maschere vittoriane che popolano i pantheon assortiti di tanti romanzi di Thomas Hardy o Charles Dickens. Per i cultori e pazienti collezionisti di vecchie chincaglierie della Old Britannia, questo disco somiglierà ad un antico spartito manoscritto rinvenuto nel doppio fondo di una baule acquistato a due soldi dal rigattiere sotto casa. Il suono di una melodia che sembra promanare da anni lontani nel tempo e che invece custodisce ancora intatta la sua freschezza. Per tutti gli altri invece i Duckworth sembreranno lo scherzo compiaciuto di due vecchi volponi pluridecorati della canzone albionica, che si divertono a caricaturizzare sé stesi e i propri amori musicali con parodie ipercolte e professorali. Ma le canzoni rimangono al di là di tutto. E incantano.

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