THE HORRORS, Primary Colours (Beggars Banquet / XL Recordings, 2009)

Prima di leggere bisognerebbe fingere che gli Horrors di “Strange House” quel furbo revival garage che strizzava l’occhio a Mtv non siano mai esistiti. Oppure che, voce a parte, si tratti di un’altra band. Con idee e intenti nuovi. Perché altrimenti si correrebbe il rischio di perdersi uno degli album più riusciti di questa metà di 2009. Questo “Primary Colours” prodotto da una delle menti più fervide degli anni ’90 e oltre, Geoff Barrow dei Portishead, e da uno dei videoclip-director più acclamati quale Chris Cunningham, ridiscute il suono degli Horrors allontanandolo bruscamente dai lidi più mainstream e modaioli dell’indie britannico. Svolta annunciata in cui le loro suggestioni dark, mantenuti i peculiari skinny jeans neri e abbandonate le chiome cotonate, si addentrano con successo in paesaggi dagli sfuocati contorni shoegaze. Un genere-UK che paraddossalmente è tornato in voga con una serie di ottimi album prodotti dall’altra parte dell’oceano: Amusement Parks On Fire, Silversun Pickups, Daysleepers, Asobi Seksu e più di recente Vivian Girls, A Place To Bury Strangers e The Pains Of Being Pure At Heart.

Che qualcosa fosse cambiato nella testa dei cinque ragazzi dell’Essex si era intuito con la partecipazione all’album tributo ad Alan Vega dei Suicide e soprattutto con gli incalzanti otto minuti di “Sea Within A Sea”, brano di chiusura tra kraut e New Order. Lanciato due mesi prima dell’uscita dell’album con un video diretto da Douglas Hart, primo bassista dei Jesus & Mary Chain oltre che della più recente formazione psichedelica sotto Social Registry, i Sian Alice Group in tour con gli Spiritualized. Lo stesso director di molti video di Stone Roses e Primal Scream, giusto per arricchire questo complesso circolo di musicisti/produttori e videomaker musicisti/produttori.

Tornando al disco, la perfetta apertura “Mirror’s Image” mette subito le cose in chiaro. Riverberi e stridori su cui si adagia un’inquieta atmosfera da club underground anni ’80 con tanto fumo nella penombra e tanta droga in sala. I suoni occupano ogni fessura nell’architettura sonora. In un tripudio di distorsioni e bassi torbidi. Si pensi a un’improbabile jam-session dei Ride che rivisitano i Bauhaus, nella dissonante psichedelia di “Do You Remember” come nel claustrofobico sabba di “New Ice Age”. L’aria è piacevolmente irrespirabile anche nei brani in cui l’ego darkettone prova a darsi tregua. “I Can’t Control Myself” ha il furore lisergico degli Spacemen 3.

“Three Decades” si dà un tono più etereo e meno cinico. I vortici chitarristici alla My Bloody Valentine accendono i colori travolgendo la voce di un Faris Fadwan che prova a mettersi nei panni di un John Lydon che fa il verso a Ian Curtis. Rimandi e controrimandi, nulla di assolutamente innovativo, ma le equalizzazioni e le sottili intuizioni sintetiche di sfondo ricamate da Barrow, danno il decisivo tocco di attualità a un sound che altrimenti sarebbe da puro plagio. Nemmeno nel singolo di lancio, “Who Can Say”. Non ci si faccia ingannare da quelle chitarre così Loveless perché oltre all’evidente eredità dei My Bloody Valentine emerge nella voce come nelle ritmiche e nell’intermezzo parlato una visceralità garage-pop che diverrà predominante nella titletrack. Formula che si ripete fruttuosamente in “Scarlet Fields”. Ciò che convince è la compattezza del suono e la tensione emotiva che non perde vigore nemmeno negli episodi meno carichi. “I Only Think Of You” è un’ipnotica ballad funerea che rivede i Joy Division con qualche soluzione compositiva più originale rispetto al revival degli Interpol. Come la viola sintetizzata che rende l’aria malata e stordisce in un pathos sul punto di esplodere che finisce per spegnersi in se stesso dopo sette minuti.
Resettare dunque ogni pregiudizio. Gli Horrors sono finalmente i degni titolari di un nome così indicativo ed eloquente.

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