Italia Wave 2009 – 18 luglio 2009

18 luglio 2009 – La giornata

di Paolo Bardelli e Stefano Folegati

MAIN STAGE

“We Are The Robots”. Siamo tutti esseri meccanici nel sabato di Italia Wave 2009. Arrivano i Kraftwerk e la musica si va ad intersecare con mille discorsi più o meno filosofici sull’evoluzione tecnologica e i riflessi che ha su di noi. Lo spettacolo musicale passa in secondo piano, e anche se chi è proprio cresciuto con i Kraftwerk assicura che è stato un tuffo al cuore, il live di Livorno dei quattro teutonici ci sollecita altri pensieri e ci fa riflettere sul loro immaginario raffigurato negli enormi video alle loro spalle. Il futuro dei Kraftwerk era più semplice, era l’interagire semplice tra uomo e macchina, linguaggio binario, fino ad una completa identificazione e sovrapposizione, un mondo perfettamente in ordine in cui la mentalità robotica avrebbe annullato o comunque attutito le variabilità emotive tipiche di noi sfigatelli in carne ed ossa. Il mondo attuale invece si palesa come molto più complicato, la tecnologia più che essere nostra interlocutrice unica è diventata l’interfaccia verso altre persone, fragili e umorali come noi, aggravando ulteriormente le cose. Non c’è più il futuro di una volta.

Questo non significa che i Kraftwerk non fossero “avanti”, semplicemente non erano il futuro tout court e, ci verrebbe da dire, per fortuna non lo sono stati: il loro mondo si reimpone dunque anche nel 2009 come nel 1974, nella stessa maniera ordinata, minimale, funzionale.

Il che è poi anche dal lato prettamente musicale: l’iniziale “The Man Machine”, una “Radioactivity” molto coinvolgente, “Computer Love”, “Trans-Europe Express” rivestite di suoni meno scarni ma pur sempre essenziali alla Kraftwerk ricreano il loro universo anche a Livorno perché il loro universo vivrà sempre, e senza di loro. Non a caso a metà concerto il tendone si chiude e si riapre con solo dei veri e propri robot a loro posto (“We’re charging our battery”): i Kraftwerk ci dicono che loro non servono. Ma, in fondo, chi è che serve?

Prima dei dusseldorfiani un djset interlocutorio, ma a tratti interessante, di Marco Passarani, e ancor prima gli Offlaga Disco Pax, promossi dal Wake Up Stage del 2005 allo Psycho nel 2008 e ora al Main. E questo è anche il problema, probabilmente: gli Offlaga non riescono a riempire lo stadio con il loro suono nonostante il trio di archi. Una siffatta dimensione intimorisce un po’ i racconti di Collini, anche se bisogna dire che la claque livornese non si smentisce sulla “Democrazia Cristiana al 6%” e l’applaude ampiamente.

Offlaga Disco Pax (foto Stefano Folegati)

Dopo i dusserdorfiani invece il laptop dj di Aphex Twin: esageratamente distruttivo, bpm da gabber, il rave che si aggirava un po’ spaesato trova finalmente il suo sballo. In effetti la fauna e la varia umanità presente era davvero strana per la classicità e il rigore dei Kraftwerk: rastamanni da caravan, punkabbestia senza bestia, ragazzetti flashati che durante i Kraftwerk dicono fra loro: “Ma è già Aphex Twin?” “Non credo, ma sono prodotti da Aphex Twin”… In realtà l’obiettivo vero di questi tizi era l’apocalisse del set dell’irlandese.

Ognuno ha i suoi limiti: io adoro la musica elettronica, mi piace ballare, godo la musica rumorosa, ma il djset di Aphex Twin era oltre i miei limiti. E, parlando un po’ in giro, oltre il limite di molti.
(Paolo Bardelli)


PSYCHO STAGE

Il weekend balneare porta finalmente anche allo Psycho Stage il pubblico delle grandi occasioni: ad accoglierli alcuni dei live set migliori del palco pomeridiano, caricati dal fresco vento di maestrale che tiene la fronte asciutta e la testa lucida. Sarà anche quello che ricorderemo come il Sabato di Enrico Gabrielli, che da quando ha lasciato gli Afterhours sembra non riuscire più a smettere di suonare con chiunque gli capiti a tiro di ancia.

Purtroppo non si fa in tempo a vedere Heike Has the Giggles, piccolo caso che ormai da tempo accende dibattiti in casa Kalporz: i tre giovanissimi romagnoli sono comunque attesi alla fatidica prima prova discografica a settembre, per vedere se si sapranno giocare quanto di buono si è visto nelle loro carte (e smentire i detrattori).

Calibro 35, con la maglietta de “La banda del brasiliano” (foto Paolo Bardelli)

Il vento fresco è una vera manna per raffreddare il clima torrido che si crea durante il set dei Calibro 35, con il loro arsenale di suoni e suggestioni da poliziottesco primi ’70. Chi pensasse si tratti di gioco che ha fatto il suo tempo non deve fare altro che uscire di casa e andarsi a vedere il collettivo romano: un mix di energia e sensualità brutale che improvvisamente rivela raffinati imprevisti jazzistici. Merito del grande mestiere strumentale di Gabrielli (e uno) e dei suoi sodali. Entusiasmanti.

Buffo che nel giorno dei Kraftwerk siano proprio le macchine a rischiare di mandare in vacca il set dei Julie’s Haircut: il loro laptop acquisisce autocoscienza e, invece di scatenare l’apocalisse nucleare come uno Skynet qualunque, decide di manifestarla facendosi venire il terrore del palcoscenico. 

Julie’s Haircut

Luca fa buon viso a cattivo gioco e annuncia una “scaletta fattanza” che non prevede l’uso delle macchine ammutinate. Avrete già capito che questa storiella ha un lieto fine: i Julie’s confermano il loro stato di grazia con un set a tutta chitarra teso e coinvolgente che esalta l’uditorio in pareo e pianelle. In loro aiuto arriva anche il Gabrielli ai fiati (e due) e il divertimento, sopra e sotto il palco, è a livelli stellari.

Dopo due set di questa portata è difficile fare di meglio. La chiusura del sabato dello Psycho è affidata ai Mariposa, facendo la felicità dei tanti aficionados che si accalcano sotto alle transenne a stringere la mano ai panciuti e barbuti musicanti. Fin dal soundcheck, l’eccentrico collettivo bolognese frulla l’estetica trash del cinema di John Waters e i cabarettisti degli anni ’50/’60, il primo Lucio Dalla e lo spirito anarchico del Settantasette bolognese; Gabrielli (e tre) e il satireggiante frontman Alessandro Fiori regalano stralunati siparietti tra le risate generali e qualche composta protesta per la scarsa resa dei suoni (“sisentedimerdaaa!”).

Mariposa

Tutto questo nei primi 20 minuti, poi subentra un’aria di svacco che si protrae in interminabili e sconclusionate code strumentali che sprofondano in una noia deprimente. Un finale un po’ grigio per un sabato altrimenti da ricordare.


(Stefano Folegati)