U2, No Line On The Horizon (Island, 2009)

Conosco coppie che si sono riformate dopo lunghi mollamenti, e con buona intesa. Altro che minestra riscaldata. Non si sta parlando di reunion tra gruppi ormai disciolti, ma della possibilità di rinsaldare, dopo cocenti delusioni, i sentimenti tra i fans e la propria band del cuore. Nel qual caso, con gli U2. In fondo, è di una storia d’amore che si sta parlando.

“All That You Can’t Leave Behind” (2000) e “How to Dismantle an Atomic Bomb” (2004) avevano scavato solchi che sembravano ineliminabili, distanze siderali tra diverse sensibilità che da una parte sembravano diventate terribilmente senili (eccetto qualche sprazzo di lucidità), dall’altra sterilmente ripiegate sui trascorsi “fuochi indimenticabili”.

Ebbene, “No Line On The Horizon” è una nuova lettera d’amore, un mazzo di fiori, un bigliettino fatto scivolare sotto la porta di chi l’aveva chiusa, quella porta, quasi dieci anni fa. Torna ad esserci del sentimento, a volte anche passione, sicuramente un’autocoscienza lucida di rimettersi in discussione. Senza tradirsi.

Una canzone senza tempo che è – da subito – un classico (“Magnificent”), cavalcata epica che ha in sé la freschezza incosciente di “Lady With The Spinning Head” (per chi non conoscesse quest’ultima… si vergogni, e corra subito ad ascoltarla!) e la magnificenza di “Until The End Of The World”, un risveglio dopo una notte burrascosa (“Unknown Caller”) con arpeggi alla “The Joshua Tree” e cori alla Passengers, un viaggio psichedelico ai confini dell’universo (“Fez – Being Born”): sono solo tre esempi di come questo album sia un vero e proprio richiamo di una sirena, un sincero sguardo dei quattro di Dublino allo zeitgeist senza il deleterio buonismo precedente.

Bono a volte fa fatica ma la voce la sa usare, Larry Mullen è senza sbavature (splendido in “No Line On The Horizon”), Adam Clayton solito rullo (in evidenza su “Get On Your Boots”), i produttori Eno-Lanois ci mettono il marchio sonoro, ma è The Edge il vero mattatore. Almeno in un paio di circostanze, e si fa fatica a capacitarsi di quello che si sta per scrivere, suona con l’intensità blues e l’intenzione da groppo in gola di Ritchie Blackmore (gli assoli di “Moment Of Surrender” e “Unknown Caller”, ed Evans è sempre stato un chitarrista anti-assolo per indole e capacità!).

Qualche piccola scivolata c’è, ma sono solo sparuti passaggi poco lungimiranti all’interno delle canzoni (uno su tutti, il “baby, baby, i know i’m not alone” in “I’ll Go Crazy If I Don’t Go Crazy Tonight”), peccati veniali.
Di quelli che si perdonano immediatamente al proprio innamorato/a.

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