SHEARWATER, Rook (Matador, 2008)

Strano destino quello degli Shearwater. Il gruppo di Austin, nato, come si suol dire, da una costola degli ormai famosi Okkervil River (nelle cui fila militava, nelle vesti di tastierista, il cantante e compositore Jonathan Meiburg), non ha infatti raccolto l’effettiva visibilità che pur meritava. Con un disco di una bellezza toccante e assoluta e pari solo alla sua immensa e inconsolabile tristezza, gli Shearwater (attivi per altro già da diversi anni) sono stati del tutto adombrati da un Bon Iver tramutatosi nel volgere di qualche settimana in una caso mediatico di proporzioni planetarie. A ciò bisogna poi senz’altro sommare il ricordo ancora vivo e fresco di un’opera difficilmente archiviabile come “Boxer” dei National. Eppure un lavoro come “Rook” aveva ed ha ben poco da invidiare ai dischi (eccellenti) appena ricordati, inserendosi pressapoco nel medesimo solco estetico e concettuale, tracciando all’interno di esso traiettorie sonore di grandissima suggestione e pieno equilibrio formale.

“Rook” è infatti e innanzitutto una sontuosa collezione di magnifici brani, un disco a cui si deve dare del lei già al primo ascolto. Di per sé si potrebbe parlare di un luogo sonoro in cui confluiscono e vanno ad intersecarsi la vena introspettiva e analitica di Antony, il caldo paesaggismo en plain air della grandi pianure dei Lambchop e il male di vivere senza riscatto dei Joy Division meno spigolosi. Ma non si riuscirebbe comunque ad esaurire la ricchezza simbolica e la tensione emotiva di composizioni dal passo marziale (a tratti quasi un madrigale elettrico) come la quasi eponima “Rooks”, una carovana di dannati lanciata a tutta velocità come un urlo nel buio fino a schiantarsi contro le mura dell’inferno e forse oltre. Le canzoni prendono direzioni sempre diverse e ogni episodio è separato dall’altro, si va dalla ballata dalla chiarissima impronta radioheadiana “The Snow Leopard” (impossibile non pensare al pianoforte ovattato e in crescendo costante di “Pyramid Song”), per rimanere impigliati nei riverberi legnosi di “Home Life”, uno dei capolavori architettonici dell’intero album, soprattutto nel suo sbriciolarsi in un gorgo di archi e fiati singhiozzanti che sembrano quasi guardare negli occhi il volto piangente di un dio morto e sconfitto. A momenti viene in mente un disco come “Astral Weeks” di Van Morrison, per la capacità di coniugare in un impasto solidissimo melodia, acume compositivo e visceralità, totale controllo della materia sonora e ricerca di una verità esistenziale che non scende a compromessi. A questo proposito brani splendidi come “Lost Boys”, l’acidissima “Century Eyes” o il piccolo idillio privato di “I Was A Cloud” (come sollevare per un istante lo sguardo verso le stelle e sapere di non essere soli) riescono a descrivere bene le temperie di tutto il disco, mettendone bene mostra il reale valore.

A nostro modestissimo parere la segnalazione di questo album era quantomeno necessaria, soprattutto per stimolarne un eventuale recupero in extremis per chi se lo fosse perso tra le tante uscite che mensilmente ingombrano i nostri padiglioni sovraccarichi. Se siete alla ricerca di una musica capace di sfiorare le corde più intime e friabili della vostra arpa interiore, “Rook” degli Shearwater è senz’altro qualcosa di molto vicino a quello che stavate cercando.

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