DARGEN D’AMICO, Di vizi di forma virtù (Universal, 2008)

Avete presente quei dischi che vi piacciono moltissimo e che vorreste consigliare a tutti quanti ma non sapete se farlo? Parlo di quei dischi che sono talmente al limite (sia dal punto di vista strettamente musicale che da quello stilistico che da quello concettuale) per cui non è detto che piacciano a tutti, un po’ perchè altrimenti il concetto di popolo bue andrebbe a farsi friggere e i vanzina (giusto per fare un esempio) non avrebbero più lavoro, un po’ perché è difficile che la roba sperimentale, proprio perché sperimenta, piaccia alla maggioranza delle persone. Intendo quel tipo di disco che non è piaciuto al cento per cento nemmeno a voi che avete una voglia matta di consigliarlo a tutti quelli che incontrate, il tipo di disco che ha tantissimi pregi ma anche molti difetti; però alla lunga iniziano a starvi simpatici, questi difetti, vi ci affezionate, e le tracce che skippate sono compensate da quelle che mettereste in repeat tutto il giorno, per cui alla fine ve ne fregate e iniziate a consigliarlo lo stesso a tutti, questo disco, anche se poi quei pochi che vi cagano ne escono abbastanza disturbati e smettono definitivamente di darvi retta.

Come avrete senz’altro capito “Di vizi di forma virtù” fa parte di questa categoria: tralasciando il titolo, che vince tutto e già da solo meriterebbe una piccola donazione via paypal, le 34 tracce di questo doppio cd mi hanno lasciato con il dubbio amletico di cui sopra, in quanto si discostano dalla media dell’hip hop nostrano (e non) per almeno tre aspetti:

Le basi. Parlare di gusto elettronico in questo caso sarebbe eufemistico, dato che le sonorità si allontanano da quelle classiche del rap in maniera piuttosto scortese, senza nemmeno salutare. E non è solo una questione di suono: se normalmente nell’ hip hop (ma in generale ovunque) è la batteria a determinare l’andamento ritmico del pezzo e l’mc che ci rappa sopra ad adeguarsi, in “Di vizi di forma virtù” questo rapporto sembra rovesciarsi, per cui spesso è la struttura metrica di Dargen a fungere da tappeto, mentre la base si ritrova a fare da accompagnamento claustrofobico e svarionante.

La metrica. Dargen rifiuta per principio le cose normali, magari più d’impatto ma meno virtuose; a volte lascia qualche rima aperta, a volte la chiude quando meno ve lo aspettate, spesso le incrocia o dà l’impressione di “andare lungo” rispetto alla battuta. Non si tratta però né di giocoleria fine a se stessa né di atteggiamento provocatorio nei confronti dell’ascoltatore: dovendo individuare una costante stilistica la si trova invece nel ruolo ricoperto dalle immagini, che risultano sempre preponderanti e prioritarie rispetto alla pulizia della rappata.

I concetti. Dargen dice: “di me ho capito questo/ do titoli diversi/ ma è sempre lo stesso testo”, eppure mente. Gli argomenti che stanno alla base dei pezzi sono infatti tra i più vari e originali. Dargen parla dei suoi problemi alla schiena e dei massaggi tailandesi che gli danno sollievo, della sua infanzia, del suo aspetto fisico, di scrittura e di rap, della ragazza che l’ha lasciato e che lo ossessiona, del mondo della pubblicità, dei suoi problemi economici, si finge malvivente in fuga che lascia un messaggio d’addio alla sua donna, bambina che non vuole che la madre esca la sera per cenare con un’amica, patriarca nel deserto che saluta la figlia che parte in cerca di fortuna…

Insomma, “Di vizi di forma virtù” è un prodotto ostico e complicato, vi si alternano pezzi rap classici e strumentali house, strofe criptiche sussurrate e ritornelli melodici in cui il vocoder la fa da padrone (per la verità c’è un vero e proprio abuso di vocoder lungo tutto il disco: a me gusta ma a qualcun altro potrebbe anche fare schifo), ed è scritto talmente bene e con tanta originalità che tutto il resto passa in secondo piano.

Specie se i canoni vi hanno stufato e avete voglia di qualcosa di completamente diverso.

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