Baustelle, Estragon (Bologna) (8 marzo 2008)

Sono passati due anni e mezzo dalla sera in cui i Baustelle diedero il via al tour de “La Malavita”, in uno stipatissimo Calamita, a Cavriago, e quelle erano già le ultime prove da almost famous sui palchi familiari a loro e ai fedelissimi della prima ora. Oggi se suonassero in luoghi simili ci vorrebbero gli sbirri a respingere la ressa. In questo paio d’anni i Baustelle sono diventati l’unica e vera nuova cosa del pop italiano, hanno invaso le radio commerciali e i festivalbar e sono schizzati come ufo sui monitor delle riviste patinate e dei parrucconi della critica canzonettara, che improvvisamente si sono visti costretti a chiedersi “chicazzosonostibaustèl”.

Ecco perché nel nuovo tour i Baustelle sono quasi costretti a segnare uno scarto rispetto al passato, perché là fuori c’è più gente che mai ad aspettarli, e l’angusta ma confortevole nicchia della band di culto non fa più per loro. Alle dieci di sabato sera l’Estragon è stracolmo quando la band fa il suo ingresso sul palco, dispensando subito un po’ di suspance: riflettori si aggirano sul palco vuoto mentre parte la base strumentale di “Andarsene così”, e poi uno alla volta il terzetto senese e i loro quattro turnisti prendono posto agli strumenti salutati da un’ovazione fragorosa. Le luci rivelano un palco circondato da cornici di quadri senza nulla dentro, che fanno molto installazione arty, ma non si fa in tempo a ragionarci sopra che si parte con “Antropophagus”, uno dei brani migliori del nuovo lotto, che unisce visioni apocalittiche da tardo De Andrè a una irresistibile melodia bubblegum. Tutta la prima parte del set è dedicata alle ultime nate, quelle che il pubblico pieno di giovani e giovanissimi conosce meglio: “Colombo”, “Il liberismo ha i giorni contati”, e ovviamente “Charlie fa surf” che rischia di fare venire giù il capannone tanto il pubblico, immedesimato nelle gesta dell’adolescente strafatto, canta e salta.

Le nuove canzoni ci sono, eccome: tanto evocative e disturbanti quanto capaci di insinuarsi nella testa con la grazia civettuola di melodie fatte apposta per essere cantate a squarciagola. Il suono della band invece è inizialmente invischiato in una resa sonora magmatica in cui è difficile discernere altro dalla batteria e la chitarra altissima di Claudio Brasini, le stesse voci di Rachele Bastreghi e Francesco si perdono nel riverbero. Dopo un po’ le cose migliorano, rivelando comunque un suono grosso: scongiurata una deriva tutta basi registrate alla Blonde Redhead, che visti gli arrangiamenti barocchi di “Amen” si poteva temere, il gruppo manifesta un approccio da rock band classica anni ’70 dalla mano piuttosto pesante, quasi a volere catturare un’energia più cruda, un’esperienza più diretta rispetto al lavoro di cesello dello studio.

Chi beneficia particolarmente del nuovo repertorio è Rachele, che ora non ha più solo “La canzone del parco” (proposta comunque fra i bis) per dare spazio alla sua voce suadente e alla sua sua grinta: “L’aeroplano” mette i brividi, è una grande e struggente canzone pop all’italiana come se ne scrivevano una volta, “Dark Room” è sexy e malinconica al tempo stesso. Se la presenza di Rachele è sempre molto fisica e grintosa, Francesco appare sempre più evanescente, quasi spettrale mentre mette in fila le piccole note angosciose di “Alfredo”.

Che ne è invece della produzione pre-Charlie? Quando Bianconi introduce le canzoni da “La Malavita” come “vecchie”, si capisce che stasera ci sarà poco spazio per i brani più vecchi, che se “I Provinciali” e “Il Corvo Joe” sono già storia, le canzoni del “Sussidiario” sono archeologia. Vittima sacrificale più o meno annunciata è il secondo album, dichiarato nelle interviste a Francesco il meno riuscito, da cui viene comunque recuperata la splendida “Canzone di Alain Delon” (ma è dura andarsene a casa senza “Love Affair”).

La prima parte del concerto si chiude con “Baudelaire”, con la coda strumentale martellata nel delirio generale, mentre i bis iniziano con quella che dovrebbe essere la chicca della serata, cioè Bianconi che si riappropria di “Bruci la città”, scritta per Irene Grandi, suscitando reazioni tiepide nell’uditorio. A chi spera che il finale riporti in superficie i ricordi, i Baustelle dedicano niente più di una cartolina: due delle canzoni cardine del “Sussidiario” vengono inscatolate in un medley, un “Gommariformatorio” che sa di souvenir, un ricordino per quelli che c’erano già allora. “Andarsene così”, stavolta cantata, è il finale quasi naturale della serata.

I Baustelle sono diventati una cosa grossa, e ora tutti guardano loro: se nel lavoro in studio hanno preso direzioni precise, negli arrangiamenti sontuosi e nella produzione imponente, dal vivo sembrano ancora alla ricerca di un assetto ottimale, di una cifra stilistica che metta assieme la loro straordinaria capacità di raccontare storie con la domanda di energia che un pubblico sempre più numeroso ed eterogeneo si porta dietro. Il tour è appena iniziato e ci sarà tempo e spazio per mettere a punto le cose, magari approfittando dell’impennata di popolarità per far conoscere qualche brano del passato ai nuovi arrivati, perché prima di Charlie c’erano aspiranti attori di film erotici e playboy da strapazzo in cerca di svedesi, e sono fiabe deviate che meritano ancora di essere raccontate.