DIRTY PROJECTORS, Rise Above (Rough Trade / Self, 2007)

Se siete alla ricerca di stranezze sonore assortite e abbinamenti di stile quantomeno opinabili questo disco fa al caso vostro. Pensavate che Prince e Captain Beefheart mai e poi mai avrebbero potuto incrociare le loro strade? Be’, vi sbagliavate, in quel di New York (e dove sennò?) sono riusciti a smentire anche questo teorema. Ma la cosa davvero interessante è che il bello deve ancora venire. Occorre forse partire dall’inizio allora.

Dave Longstreth è un irrequieto polistrumentista proveniente dal Connecticut che da anni opera nel sottobosco musicale della grande mela, celato dietro la sigla del suo gruppo dalle geometrie variabili Dirty Projectors, con il quale è riuscito a licenziare già la bellezza di cinque dischi (quindi potete ufficialmente iniziare a sentirvi in colpa, se ancora non vi eravate accorti della loro esistenza). E proprio l’ultimo lavoro “Rise Above”, il quinto della serie, ha alle spalle una storia stranissima: è infatti una ricostruzione a memoria di un disco dei Black Flag, “Damaged”, che un Longstreth ancora tredicenne aveva casualmente carpito dalla collezione di dischi del fratello più grande, per restarne poi letteralmente ossessionato (secondo la più tradizionale delle amate favole dell’adolescenza). Aldilà di tutti gli impliciti sottotesti freudiani che sibilano appena sotto la superficie di questa storia (cos’è infatti la musica se non un esercizio di reminiscenza inconsapevole e senza fine e cosa fanno tutti musicisti di questo mondo se non cercare di (ri)scrivere inconsciamente la musica che hanno pazientemente assorbito e immagazzinato durante la prima giovinezza quando l’orecchio era all’apice della sua verginità?), non serve comunque aggiungere che “Rise Above” è tutt’altro che un disco hardcore, anzi magari lo fosse stato, che ci avrebbe di gran lunga facilitato il lavoro. A onor di cronaca va anche aggiunto che già in un precedente disco, “The Pretty Address”, di per sé dedicato ai nuovi scenari introdotti in America dalla tragedia dell’11 settembre e alla distruzione dell’impero azteco da parte di Hernan Cortes, aveva fatto la sua apparizione nientemeno che Don Henley degli Eagles (!? non chiedetemi come diavolo sia stato possibile), altro lamentevole spettro dell’adolescenza musicale del nostro ragazzo.

Non dobbiamo poi stupirci troppo del fatto che anomalie di questo genere accadano oggi proprio a New York, metropoli che da un po’ di anni a questa parte (in realtà praticamente da sempre, basta pensarci un secondo) si è elevata al rango di un enorme e brulicante cantiere a cielo aperto, popolato da orde sgomitanti di artisti perdigiorno (o presunti tali), che trascorrono pomeriggi interi della loro improbabile esistenza a spremersi le meningi su come pagare l’affitto e , nel frattempo, inventare la musica del futuro. Basta pensare a personaggi come Animal Collective, Black Dice, Liars, LCD Soundsystem, Tv On The Radio, Oneida, tutta la nutrita e ramificata rete di amicizie e collaborazioni che fa capo a Devendra Banhart o più recentemente Battles e Yeasayer, per rendervi rapidamente conto che se avete qualche piccola velleità musicale nella vita e volete pure passare alla storia, vi conviene fare le valigie al più presto e trasferirvi per un paio d’anni da qualche parte in quel di Brooklyn in cerca di oro e fortuna, alla stregua di pionieri del ventunesimo secolo. E tutto questo perché? Perché a New York il futuro è già presente, molto semplice. Da questo punto di vista New York ha già vinto la sfida a distanza con Londra, se mai sfida c’è stata e se è vero che il massimo che la capitale inglese ha saputo produrre negli ultimi tempi siano stati i Bloc Party o i Klaxons (sebbene, eccezione che conferma la regola, l’ultimo Interpol si sia rivelato, un po’ a sorpresa ma non tanto, inferiore all’ultimo Editors, questo lasciatemelo dire). E i nostri Dirty Projectors sono assai tipici esponenti di quella manovalanza intellettuale nuovayorchese (acquisita, come spesso accade) che si rimbocca le maniche di fronte al disastro per concepire e plasmare una musica nuova che nessuno ha mai ascoltato prima e che si spinge con tutte le sue forze oltre la semplicistica e furbesca constatazione della morte del rock che il secolo scorso ci ha lasciato in eredità come una gravidanza (anzi: una sterilità) indesiderata e creativamente paralizzante.

In questo disco infatti la vitalità e l’inventiva sprizzano da tutti i pori, finendo quasi con il diventare un ostacolo all’effettiva potabilità di un prodotto discografico ai limiti della schizofrenia stilistica. Si potrebbe a ragione parlare di un freak folk mutaforma e particolarmente ardito sulla scia dei vari Espers, Tunng, Akron/Familiy, ma occorrerebbe subito aggiungere e segnalare la fortissima connotazione soul/R&B (quando non apertamente afro) che permea l’umore compositivo del disco nel suo complesso, quasi che le Supremes o i Jackson Five (notevolissimi i cori di Amber Coffman e Susanna Laiche) rileggessero il repertorio di Crosby, Stills, Nash e Young o Simon e Gurfunkel, con un Ravi Shankar alticcio alla produzione. A questo aggiungete pure come ciliegina sulla torta della più deliberata e gratuita incoerenza una voce in odore di Tim Buckley, dal virtuosismo sin troppo facile. Una cosa, come dire, quantomeno esotica, come se ci volessero convincere che possa esistere da qualche parte nel mondo un ristorante cinese che serva tagliatelle alla tailandese con contorno di crauti all’etiopica e il risultato sia commestibile o addirittura pregevole.

Pura etno-gastronomia sperimentale. E sorprende ancor di più che la britannicissima Rough Trade, con una consolidata tradizione melodica alle spalle, si sia lasciata irretire e abbia alfine acconsentito a investire le sue sonanti sterline nel talento sghembo e farneticante (e senza la benché minima possibilità di successo) di questo visionario e caotico Sufjan Stevens orfano di orchestra che cerca di esorcizzare lo spettro di Sly and the Familiy Stone imbottendolo di pastiglie e calmanti folk comprati sottobanco dai Love, dietro qualche via secondaria degli anni sessanta. Eppure, eppure…pochi dischi come questo riescono ad essere fino in fondo figli di quel tessuto sociale culturalmente permeabile e promiscuo, di quella porosità cosmopolita e adulterante che da sempre caratterizza l’anima più intima di New York, la città più aperta e contaminata del mondo, con tutta probabilità. Ed ecco allora svelato l’arcano: oggi come e più di trent’anni fa il futuro della musica risiede tutto o quasi nella possibilità che le musiche (e le tradizioni che pulsano dietro di esse) abbiano di incontrarsi e spiarsi in un contesto di libero e reciproco commercio, e forse proprio nella grande incubatrice di New York si va (anche in virtù di curiosi e pittoreschi esperimenti come quello dei Dirty Projectors) formando un brodo primordiale di idee in cui già attecchisce il rock che infesterà i padiglioni auricolari dei nostri nipotini con le orecchie a punta.

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